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Troppi scarti alimentari. Circular Fiber usa quelli dei carciofi per produrre farina edibile.

By : Aldo |Marzo 05, 2024 |Arte sostenibile, Emissioni, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti |Commenti disabilitati su Troppi scarti alimentari. Circular Fiber usa quelli dei carciofi per produrre farina edibile.

Il problema dello scarto alimentare è un tema che riguarda tutti quanti in modo concreto. Tra gli scarti domestici e quelli delle aziende agricole, si contano migliaia di tonnellate di prodotto con grandi potenzialità che non vengono sfruttate. E per questo che in Italia la ricerca in questo senso sta aumentando per una maggiore circolarità.

    

Gli scarti agroalimentari

Gli scarti alimentari rappresentano un grave problema a livello globale, con importanti implicazioni ambientali, economiche e sociali. Nel mondo si stima che oltre il 33% di tutti gli alimenti prodotti vada sprecato, ossia circa 1,3 miliardi di tonnellate l’anno. Questi scarti contribuiscono in maniera significativa all’aumento delle emissioni di gas serra, alla deforestazione e alla perdita di biodiversità. Inoltre, rappresentano un enorme spreco di risorse idriche e di terre coltivabili. In Italia la situazione non è diversa poiché stima che ogni anno vengano prodotti circa 5,1 milioni di tonnellate di scarti agroalimentari, che corrispondono a circa il 15% del totale della produzione alimentare nazionale.

   

Ridurre tali scarti è una sfida cruciale da affrontare e risolvere il prima possibile per garantire la sostenibilità del nostro sistema alimentare e preservare le risorse naturali per le generazioni future. A questo proposito sono già in azione strategie di miglioramento della gestione delle filiere alimentarie di sensibilizzazione dei consumatori. Tuttavia, queste pratiche dovrebbero essere supportate dall’implementazione di politiche pubbliche mirate possono che contribuiscono a mitigare questo problema globale.

   

Gli scarti dei carciofi

Per affrontare tale problema c’è chi si è focalizzato sugli scarti di un ortaggio specifico, il carciofo. Ma perché proprio i carciofi? In Italia, l’annuale produzione e consumo di Cynara cardunculus (dati Ismea 2020), si aggira intorno alle 378 mila tonnellate. Purtroppo, però, gli scarti derivanti da questa produzione rappresentano oltre il 60% del totale raccolto, fino ad un 75% nelle lavorazioni industriali. Tali cifre evidenziano un grave problema che necessita soluzioni efficaci e sostenibili.

   

Se si pensa poi alla totale produzione di ortaggi, si può solamente immaginare quanto materiale venga eliminato nell’industria, e quanto potenziale esiste tra gli scarti. Proprio per rimediare a tale problema sono nate startup o grandi aziende hanno investito nella ricerca per poter migliorare ed efficientare la loro produzione.

   

La farina Karshof

Circular Fiber è una startup fondata da Luca Cotecchia e Nicola Ancilotto. I due hanno deciso di lavorare la parte erbacea più dura dei carciofi per produrre la Karshof. Si tratta di una farina funzionale ad alta digeribilità, priva di glutine, a basso contenuto di zuccheri ma ricca di fibre (60%), proteine (13%) inulina e cinarina. L’idea è nata dalla tesi di laurea di 5 studenti del master MBA al MIB Trieste School of Management ed è parte del progetto Terra Next di Fondazione Cariplo. Quest’ultimo sostiene l’innovazione nell’ambito della bioeconomia e dell’agricoltura rigenerativa.

    

Il programma prevedeva la formazione di una filiera del carciofo per sfruttare tutto lo scarto possibile. Purtoppo però l’idea è stata abbandonata in poco tempo vista la deperibilità del prodotto che non consente la sua lavorazione in zone lontane dal luogo di produzione. Tale difficoltà ovviamente riguarda l’intera produzione agroalimentare, che spreca fino al 30% della materia prima nell’UE. La  situazione descritta determina enormi perdite economiche oltre ad essere responsabile del 26% delle emissioni di gas serra.

    

Produzione e investimenti

Quindi i due founder di Circular Fiber hanno pensato ad una serie di succursali vicine alle aree di coltivazione e raccolta dei carciofi. Nonostante il progetto sia conveniente e possa effettivamente cambiare il settore, esiste un problema più grande legato ai macchinari. Perché un impianto per la lavorazione degli scarti dell’ortofrutta può costare anche 1.5 milioni di euro a modulo. Questi ultimi sono fondamentali per la trasformazione dello scarto in farina o comunque per produrre altri materiali; quindi, per poter affrontare tale sfida sono necessari anche dei grandi investimenti.

    

I sistemi necessari sono costosi a causa delle caratteristiche dello scarto stesso. Infatti, per produrre la Karshof, serve arrivare ad una fibra secca al 7% di umidità, mentre il carciofo parte da un tasso dell’80%. Per raggiungere le giuste condizioni servono degli essiccatori potenti come quelli del tabacco che eliminano il 75% di umidità in pochi minuti, ma proprio questi sono molto costosi. Circular Fiber ha avuto la possibilità di integrare tali moduli grazie all’investimento di un grande trasformatori della zona, che di recente è entrato nella società. Di certo, non tutti i coltivatori e produttori d’Italia hanno questa fortuna e dunque un diverso utilizzo degli scarti resta una possibilità remota.

    

Spostamenti e sostenibilità

Come anticipato, oltre a tutte le difficoltà citate, in questo settore manca una filiera. Pertanto l’idea dei fondatori di Circular Fiber è quella di far si che la materia possa essere trasformata in zone limitrofe per evitare trasporti lunghi, costosi e inquinanti.

    

Il progetto è quello di produrre farina direttamente nei luoghi di coltivazione e lavorazione dei carciofi, creando così un consorzio di riferimento che consentirà anche di lavorare scarti di altri alimenti.  Così facendo si ridurrebbero gli spostamenti, il tempo e le emissioni di CO2 e i costi legati al carburante e all’energia.

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L’alluminio circolare: riciclato dagli aerei dismessi arriva nelle vetture elettriche.

By : Aldo |Febbraio 21, 2024 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti |Commenti disabilitati su L’alluminio circolare: riciclato dagli aerei dismessi arriva nelle vetture elettriche.
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Gli aerei sono i mezzi di trasporto che ci fanno sognare di più, anche se giorno dopo giorno inquinano l’atmosfera con i loro carburanti. Tuttavia a fine della loro vita, possono diventare fonte di materiali riciclabili e quindi possono ridurre il loro impatto sulla Terra.

    

Gli aerei dismessi

Negli ultimi decenni è aumentata la possibilità di viaggiare il mondo soprattutto in aereo. Da anni, infatti, non si tratta più di un’attività correlata ad un’élite, ma di un’esperienza accessibile a chiunque, soprattutto con la nascita delle compagnie low cost. Tale crescita ha determinato un incremento dei voli, delle aerolinee, dunque anche del lavoro e non solo.

   

Ogni giorno migliaia di aerei sorvolano i cieli di tutto il mondo inquinando l’atmosfera per mezzo della combustione dei carburanti. In questo senso, si stanno studiando tantissime tecnologie per ridurre al minimo l’impatto dell’aviazione sul pianeta, con risultati più o meno efficienti. Tuttavia, ci sono altri modi con cui il settore aeronautico può ridurre la sua impronta nel mondo e tra questi uno è legato agli aerei dismessi.

    

Proprio per la fase che stiamo vivendo è aumentato anche il numero di aerei dismessi, con il conseguente sviluppo di aree specializzate per la loro conservazione e smantellamento. Una tra queste è la Southern California Logistics Airport a Victorville, meglio conosciuta come una delle più grandi “città dei parcheggi” al mondo. Si tratta di un aeroporto dismesso che offre spazi ampi per la manutenzione, l’immagazzinamento la riparazione e lo smantellamento di aeromobili. Ma perché gli aerei vengono dismessi? Le ragioni sono molteplici e possono variare dall’obsolescenza tecnologica ai cambiamenti delle rotte aeree oppure la fine del ciclo di vita dello stesso.

   

La dismissione e la sostenibilità

Sicuramente questi “aeroporti” hanno una grande rilevanza a livello tecnico per l’aviazione ma sono importanti anche per quanto riguarda la sostenibilità. Infatti, tali spazi offrono la possibilità di smantellare i veicoli e riciclare la maggior parte delle loro componenti a favore di una nuova economia circolare. Dunque, sono considerati una risorsa preziosa per l’industria dell’aviazione contribuendo anche alla sostenibilità ambientale e alla gestione responsabile delle risorse a livello globale.

    

Le componenti riciclabili di un aeromobile dismesso offrono un’opportunità preziosa per ridurre l’impatto ambientale e sfruttare le risorse in modo sostenibile.

Tra le parti più riciclabili si trovano:

  • i materiali compositi, come la fibra di carbonio, sempre più presenti nelle moderne aeromobili;
  • parti interne degli aerei, come i sedili e i pannelli;
  • metalli come il titanio, presente in parti strutturali e nei motori.

Oppure un altro metallo fondamentale e presente in grandi quantità è l’alluminio, utilizzato per la costruzione della fusoliera e delle ali. Proprio l’alluminio è diventato il protagonista di una startup nata in Singapore, che ha investito sul recupero e il riciclo degli aerei dismessi.

    

Nandina REM

La startup Nandina REM, nasce a Singapore con l’obiettivo di riciclare alluminio, plastica ed altri componenti dagli aeromobili dismessi. Nello specifico, l’impresa vanta un sistema di riciclo dell’alluminio degli aerei di linea che agevola la produzione dei contenitori delle batterie per i veicoli elettrici. Questo perché l’alluminio è un componente fondamentale per le scocche di quel tipo di batteria; dunque, il metallo preso da un aereo può diventare il componente di una vettura sostenibile. Ecco la circolarità che fa bene al mondo.

     

Ma di preciso, questi processi di riciclo perché sono importanti? Le stime dichiarano che per produrre 1 tonnellata di alluminio servono circa 2 tonnellate di allumina estratte a loro volta da quasi 5 tonnellate di bauxite. Grazie al riciclo invece, si evita l’attivazione di ben 12 miniere di bauxite dalla capacità di 1 tonnellata all’anno. Anche perché con la crescente richiesta di auto elettriche, i ritmi sarebbero stati insostenibili. Per mezzo del sistema innovativo di Nandina REM, ci sarebbe la possibilità di produrre decine di milioni di involucri di batterie (50 milioni entro il 2035) e non solo. Si possono anche usare le plastiche per la produzione di paraurti e le fibre per altri scopi.

     

La startup si fa forza anche delle affermazioni dei principali produttori di aerei di linea, come gli Airbus e i Boeing, che prevedono la dismessa di 15mila mezzi entro il 2030. Basti pensare che con il progetto messo in campo da Nandina REM, si può recuperare il 90% del materiale in 30 giorni. L’obiettivo della società è quello di arrivare a 40 aerei entro l’anno, con grandi possibilità di riciclo, riuso. Senza dubbio consentirà di creare un’economia circolare di forte impatto, che tuttavia riduca quello ambientale, rispettando il pianeta e la società.

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Crediti di plastica: Greenwashing o azione concreta?

By : Aldo |Febbraio 06, 2024 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti |Commenti disabilitati su Crediti di plastica: Greenwashing o azione concreta?

La quantità di plastica nel mondo cresce in maniera spropositata e rappresenta sempre più un problema globale a cui mettere un freno. Negli anni sono stati promossi progetti di ogni tipo, investimenti per la ricerca e soluzioni per le aziende. Tuttavia, sembra che la problematica continui ad aumentare e che certe azioni non abbiano l’impatto desiderato.

 

Nuove frontiere

Ad oggi il mondo è invaso dalla plastica, che continua ad aumentare in modo spropositato senza un accenno di rallentamento. Ogni anno 11 milioni di tonnellate di plastica finiscono negli oceani e tra i 75 e i 199 milioni di tonnellate hanno già raggiunto i loro ecosistemi. Questo fenomeno si ripercuote anche sulla terra ferma e sulla nostra salute. Pertanto tale tendenza preoccupa tutti e soprattutto gli studiosi che hanno messo a punto, negli anni, soluzioni e progetti per limitarne la dispersione nell’ambiente. Riciclo, riuso, nuovi polimeri, la biodegradabilità, tutto è volto a ridurre la produzione e il consumo di plastica, se non fosse che certe soluzioni sono di dubbia efficienza.

   

Infatti, durante i negoziati del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente a Nairobi (svolti dal 13 al 19 novembre) è stata introdotta una nuova opzione. Quest’ultima non convince tutti anzi, crea un forte divario tra i suoi supporter e gli scettici. Si parla dei crediti di plastica, simili a quelli di carbonio, sono stati introdotti come una nuova soluzione per ridurre l’inquinamento dei polimeri onnipresenti. Ci sono molti aspetti che fanno dubitare della loro efficienza nella diminuzione dell’inquinamento o almeno della loro validità in questo campo. Tuttavia, sono state già autorizzate le società addette alla valutazione, al monitoraggio e alla certificazione di tali crediti. Tra queste Plastic Bank, Plastic Credit Exchange e Verra già già finite negli scandali per crediti di carbonio “spazzatura”.

 

I crediti di plastica

Ma cosa sono effettivamente i crediti di plastica e come funzionerà questo nuovo mercato? I crediti di plastica vengono utilizzati dalle imprese per finanziare la rimozione della plastica e contribuire a impedirne il raggiungimento dell’ambiente. Addirittura, le aziende possono unire tale attività agli impegni che attuano per ridurre l’inquinamento nella filiera, così da raggiungere la “neutralità plastica”.

    

Di preciso, le aziende possono guadagnano crediti collaborando con enti impegnati nella raccolta di plastica (per proprio conto). Tali organizzazioni, sono generalmente formate da volontari o comunque da cittadini di aree costiere, principalmente dei paesi in via di sviluppo. Seguendo tale meccanismo sarebbe più semplice monitorare i progetti finanziati e l’effettivo cambiamento, al contrario dei crediti di carbonio. Infatti, secondo Clean Hub (società di consulenza per aziende), monitoraggio, controllo e recupero della plastica sono processi tangibili e tracciabili.

   

Pro, contro e greenwashing

Come detto in precedenza, questi movimenti non sono ritenuti validi da tutti, il panorama mondiale è diviso tra i pro e i contro. Chi li promuove, afferma siano molto più tracciabili dei crediti di carbonio e che possano contribuire realmente a ridurre il rilascio in ambiente di plastica. C’è chi invece crede si tratta dell’ennesima forma di greenwashing e dunque che non siano efficienti al contrario possono rallentare il percorso di diminuzione della plastica.

   

Le prime opinioni sono rafforzate dal fatto che questa soluzione finanziaria potrebbe trovarsi al cuore del prossimo Trattato globale sulla plastica delle Nazioni Unite. La considerazione di una tale iniziativa da parte di un ente così importante a livello globale fa pensare si tratti di una vera e propria soluzione. Nonostante ciò, si riscontrano dei movimenti poco chiari e delle dinamiche particolari che fanno dubitare della loro efficacia nel mondo.

 

Per prima cosa sono attività promosse maggiormente nei paesi a basso reddito, dove non esistono programmi di gestione dei rifiuti né tutele sul lavoro. In questo modo si evitano dei punti cardine della sostenibilità che riguarda anche l’aspetto sociale e umano, al quale si devono garantire diritti fondamentali. Così facendo, la pratica potrebbe trasformarsi in un’operazione di greenwashing, soprattutto perché non esistono ancora degli standard globali. Ovvero, non sono stati definiti regolamenti che disciplinino l’uso di questi crediti plastica o ne garantiscano l’affidabilità. In tal modo, le aziende non saranno impegnate concretamente nel ridurre la produzione di plastica, poiché la soluzione riguarda solo la parte finale della filiera. Pertanto, saranno in grado di continuare a produrla coprendosi con campagne pubblicitarie illusorie.

   

Per ora le indagini non presentano una grande positività dell’iniziativa. Di certo se fossero regolamentate e monitorate nei modi opportuni, queste attività potrebbero aiutare (in parte) a risolvere il problema.

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Mojito Bio, la prima calzatura biodegradabile al 100%.

By : Aldo |Novembre 29, 2023 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti |Commenti disabilitati su Mojito Bio, la prima calzatura biodegradabile al 100%.

Il processo del riciclo è abbastanza importante quanto delicato. Si tratta di un argomento complesso che in certi casi può essere la soluzione al problema e in altri è necessario molto più del trattamento del rifiuto.  Poi però c’è chi, con le tecnologie riesce a trovare la quadra per realizzare i propri sogni sostenibili, in armonia con l’ambiente.

   

S.c.a.r.p.a

S.C.A.R.P.A è un’azienda nata nel 1938 nel cuore delle colline trevigiane ed è leader nella produzione di calzature di montagna e outdoor. Ma soprattutto è rilevante nella sua zona: non a caso il nome della società è l’acronimo di Società Calzaturieri Asolani Riuniti Pedemontana Anonima.

   

La sua caratteristica principale è la produzione di calzature tecniche per le attività montane quali il trekking, lo sci, l’arrampicata, l’alpinismo e l’escursionismo. La seconda, non per importanza è l’attenzione verso la natura e la sua salvaguardia; da qui la motivazione di renderla una “Società Benefit”. Da anni, l’azienda aveva deciso di investire sull’autonomia energetica e la sostenibilità, ma con tale cambio ha scelto di ridurre il suo impatto sul Pianeta. Mettendolo per iscritto, la società ha dichiarato il suo impegno verso l’ambiente e le generazioni future nella maniera più trasparente e diretta possibile.

  

L’aspetto ancora più genuino e sensibile di tale cambiamento è la motivazione alla sua origine. L’amministratore Diego Bolzonello spiega che “Le montagne e la Natura in generale sono il motivo stesso dell’esistenza dell’azienda”, dunque era fondamentale la sostenibilità della produzione.

 

Il Green Lab

Ben 28 anni fa, designer e i ricercatori di S.c.a.r.p.a. hanno deciso di aprire un proprio Green Lab direttamente nella fabbrica, ad Asolo. Oggi, l’azienda ha raggiunto l’autonomia energetica ed ha intrapreso percorsi per ridurre gli scarti per mezzo del processo di riciclo e riutilizzo.

   

Soprattutto, ricorda che ogni anno nel mondo vengono prodotte oltre 24 miliardi di nuove scarpe. La gran parte di queste però arriva in discarica a fine vita, soprattutto quelle da montagna perché difficili da riciclare. Tale peculiarità deriva dal fatto che per la loro produzione vengono usati un mix di materiali difficili da separare.

   

Pertanto, S.c.a.r.p.a. oltre a riciclare le vecchie calzature, ha pensato di creare una rete di risuolatori. In tal modo, ci si può rivolgere per aumentare la vita delle proprie scarpe fino a 4-5 anni. Da questi primi esperimenti sono nati dei prototipi innovativi e totalmente sostenibili, come quelli descritti nel prossimo paragrafo.


Mojito Bio e Maestrale Re-Made

Mojito Bio la prima calzatura certificata biodegradabile al 100% con performance e durabilità che rimangono inalterate. È un prototipo creato in Italia sulla base di una filiera molto attenta e totalmente certificata. Questo vuol dire che tutti i fornitori delle materie prime applicano pratiche industriali sostenibili in termini di:

  • produzione,
  • uso di prodotti chimici,
  • rispetto della salute,
  • della sicurezza e delle condizioni di lavoro dei propri dipendenti.

Inoltre, è stata certificata la biodegradabilità della scarpa, secondo lo standard ASTM D5511. Quest’ultimo misura il livello di decomposizione in assenza di ossigeno e condizioni di temperatura e umidità controllate, pari a quelle negli impianti di trattamento dei rifiuti.

Mentre Maestrale Re-Made è il primo scarpone da sci interamente realizzato con plastiche ricavate da scarti di produzione. Nello specifico, la società dal 1995 ha stoccato e catalogato ben 3 tonnellate di scarti, per poi trasformarli in una calzatura super tecnologica, solo vent’anni dopo. Il risultato è proprio questo nuovo scarpone che segue una filosofia tutta sostenibile.

    

Così facendo S.c.a.r.p.a ha ridotto del 32% le emissioni di CO2 legata alle plastiche di origine fossile usate per la produzione delle calzature. Per arrivare ad azzerarle invece, l’azienda si è affidata alle energie rinnovabili, che dovrebbero tagliare circa mille tonnellate di CO2. Tutto ciò sarà possibile grazie ad un impianto fotovoltaico da 700 megawatt installato sul tetto ad Asolo.

    

L’azienda che ha altrettanti progetti in ballo conta già 50 Re-shop tra Lombardia, Veneto e in Trentino-Alto Adige. Questi negozi accettano di raccogliere scarpe usate del modello Mojito, con l’obiettivo di arrivare a 15mila paia di scarpe. Dopo la loro raccolta verranno ne realizzate altrettante con gli stessi standard di qualità e sicurezza. Ma S.c.a.r.p.a. non si ferma solo in Italia perché ha addirittura negozi in Francia, Austria e Germania, fino a contare 250 negozi in tutta Europa.

    

È forse questo i Made in Italy che dovremmo finanziare, ovvero la filiera italiana sostenibile? Potrebbe essere questa, una possibilità di affermarci nuovamente in Europa e nel mondo?

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Gli imballaggi devono essere riutilizzati: il nuovo regolamento UE.

By : Aldo |Ottobre 26, 2023 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti, plasticfree, Rifiuti |Commenti disabilitati su Gli imballaggi devono essere riutilizzati: il nuovo regolamento UE.

Nonostante le nuove misure riguardanti i rifiuti, lo smaltimento e il riciclo, c’è ancora tanto da fare. Pertanto, l’Europa si è mossa nuovamente per proporre una nuova direttiva, che purtoppo non piace all’Italia.

   

Il quadro europeo

Ogni anno nell’UE si producono ben 2,2 miliardi di tonnellate di rifiuti di cui più di un quarto (il 27%) è rappresentato da rifiuti urbani. Viste le cifre è abbastanza semplice affermare che i paesi più ricchi tendono a generare più rifiuti per abitante. Questo è confermato dagli studi che hanno descritto una specifica condotta dei vari paesi membri. Per esempio, tra il 2018 e il 2021 i rifiuti urbani per abitante sono diminuiti a Malta, Cipro, Spagna e Romania. Mentre sono aumentati, toccando i picchi più alti in Austria, Lussemburgo, Danimarca e Belgio. I numeri più bassi sono stati registrati in Spagna, Lettonia, Croazia e Svezia.

    

Se invece si restringe il campo ai soli rifiuti da imballaggio, la situazione non sembra migliorare. Secondo le statistiche, nell’ultima decade la situazione è peggiorata passando da 66 milioni di tonnellate di rifiuti da imballaggi nel 2009, a 84 milioni nel 2021. Un aumento di grande rilevanza che ha culminato appunto, con la produzione di 188,7 kg di rifiuti di imballaggio all’anno per ogni europeo. Per quanto analizzato dai ricercatori, questa tendenza non diminuirà, anzi continuerà a crescere a dismisura fino a toccare i 209 kg per abitante nel 2030.

     

Le nuove misure

Per questo la Commissione ambiente del Parlamento europeo ha appena adottato, una nuova proposta di regolamento. Questa punta a una maggiore facilità d’uso del packaging, con lo scopo di ridurre tutti gli imballaggi inutili e i rifiuti prodotti del continente. La proposta è passata con 56 voti a favore, 23 contrari e 5 astensioni; l’Italia però non l’approva.  La proposta (Packaging and Packaging Waste Regulation) passerà alla votazione dell’Assemblea plenaria per poi iniziare i negoziati finali con il Consiglio Ue tra un mese.

    

La normativa nasce per porre uno stop drastico a questa avanzata; dunque, l’UE propone di puntare tutto sul riuso, il recupero e il riciclo. Le idee riportate sono varie e coprono diversi aspetti:

  • vietare la vendita di determinati sacchetti di plastica leggeri (inferiori a 15 micron);
  • ridurre in generale i rifiuti in plastica degli imballaggi;

Precisamente l’obiettivo è quello di apportare una riduzione graduale: 10% entro il 2030, 15% entro il 2035 e 20% entro il 2040. Arrivando anche a determinare delle percentuali minime del contenuto riciclato delle parti in plastica entro la fine del 2025. Si pensa anche alla possibilità di fissare obiettivi e criteri di sostenibilità anche per le bioplastiche. Ed infine si suggerisce di garantire un numero minimo di riutilizzo dei vari imballaggi per semplificare sempre più il processo di riuso.

    

Altri punti importanti della norma, riguardano ristoranti e caffè e i distributori finali di cibi e bevande d’asporto. Proprio loro dovranno garantire ai consumatori la possibilità di portarsi il proprio contenitore. Mentre si parla anche del divieto dell’uso di PFAs e delle sostanze chimiche eterne (forever chemicals), che possano essere a contatto con gli alimenti. C’è un punto anche per la raccolta differenziata: si chiede Paesi membri di differenziare al 90% dei vari materiali da imballaggio entro il 2029.

  

L’Italia contraria

Germania e Francia hanno accolto la proposta con grande entusiasmo poiché certi processi sono già in atto nelle loro città. Per esempio, nella prima, l’abitudine del riuso è comune e molto diffusa per prodotti quali latte, acqua e birra. Tuttavia, insieme, questi due stati hanno richiesto delle flessibilità in modo da adattarsi nel tempo e deroghe in base alle abitudini dei cittadini. Anche l’Austria esulta ma ricorda l’importanza di osservare le regole sulla sicurezza alimentare.

    

L’Italia invece non ci sta. Si oppone al voto, ricordando le risorse usate e gli sforzi fatti per puntare sul riciclo, di cui è leader europeo. Con le nuove norme invece, si ritroverebbe davanti a politiche di riuso che potrebbero penalizzare diversi settori, dalla ristorazione alla distribuzione. Il pensiero è condiviso dai vari ministeri a Confindustria, Coldiretti, Cia, Confagricoltura e Confcommercio.

Confcommercio ribadisce che la nuova proposta potrebbe danneggiare la filiera alimentare perché gli imballaggi sono fondamentali per

  • protezione e conservazione degli alimenti,
  • l’informazione al consumatore e la tracciabilità,
  • l’igiene dei prodotti.

Tutti questi punti sono fondamentali perché ne consentono anche la commercializzazione e l’export. Anche il ministro Gilberto Pichetto Fratin, ricorda che il modello vincente italiano deve essere valorizzato. Pertanto, afferma, che continuerà la lotta per difendere la filiera innovativa e virtuosa, che supera i target Ue con diversi anni di anticipo.

     

Dunque, in attesa dell’Assemblea plenaria prevista dal 20 al 23 novembre, l’Italia continuerà a difendere la qualità del suo made in Italy. Così continuerà ad opporsi per valorizzare anche gli sforzi e gli impegni (anche economici) fatti in questi anni.

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Smartphone e tablet: quale valore hanno una volta arrivati a fine vita?

By : Aldo |Ottobre 10, 2023 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti |Commenti disabilitati su Smartphone e tablet: quale valore hanno una volta arrivati a fine vita?

Il riciclo ci permette di ridurre il numero di rifiuti nelle discariche e di emissioni di CO2 nell’atmosfera. Oggi è un processo ancora più rilevante per l’ambiente e la sostenibilità, ma, nonostante ciò, non è ancora ben sviluppato in tutti i settori. Quello dei dispositivi elettronici sembra essere in difficoltà.
   

Smartphone e tablet

I dispositivi elettronici “smart” sono nelle nostre vite da un decennio e hanno rivoluzionato totalmente la quotidianità di tutti. Dove con l’aggettivo “smart” si intende con capacità di calcolo, memoria e connessione per l’impiego di funzioni avanzate tramite app e navigazione Internet.

  

Nell’arco di soli 8 anni, i numeri relativi agli smartphone sono duplicati: oggi se ne contano 6,8 miliardi, mentre nel 2016 erano “solo” 3,6 miliardi. Tuttavia, in generale, i telefoni mobili (“smart” e non) utilizzati oggi nel mondo sono 7,3 miliardi.  A questi numeri sarebbe opportuno aggiungere oltre 500 milioni di cosiddetti “feature phones”. Si tratta di telefoni cellulari di base, privi di sistemi operativi complessi che possono essere utilizzati semplicemente per l’utilizzo delle applicazioni.

  

Per quanto riguarda l’Italia, il 77% delle persone possiede un telefono e le stime sulle loro spese creano un ampio quadro dell’economia tecnologica.  Infatti, secondo il V Rapporto Censis-Auditel, nel 2021 nella Penisola sono stati pagati più di 7,8 miliardi di euro per l’acquisto di telefoni e apparecchiature telefoniche. Una spesa che rispetto al 2017 è aumentata del 92%: si tratta dell’incremento più elevato registrato in assoluto per le varie voci di spesa.

Tali cifre rendono l’idea sull’ importanza di questi dispositivi, che tuttavia, una volta obsoleti diventano oggetti e reperti storici nei nostri cassetti.

   
Il valore di uno smartphone

Attualmente abbiamo consorzi di riciclo per molteplici tipi di rifiuti come plastica, carta, vetro, alluminio. Questi sono molto sviluppati poiché correlati ad una grande quantità di prodotti che utilizziamo quotidianamente, creando un’importante mole di rifiuti. Proprio per questa ragione e viste le cifre riportate precedentemente, sarebbe opportuno promuovere maggiormente le procedure di riciclo e riuso degli smartphone. Poiché una volta esausti, non vengono valorizzati, come anche tablet e altri dispositivi elettronici.

  

Quello che non tutti sanno però è che quegli oggetti hanno elevato valore, soprattutto se introdotti in una realtà di economia circolare. Tale caratteristica deriva dagli elementi di cui sono composti, ossia materie prime critiche (o terre rare) come cobalto nella batteria, indio nello schermo. O ancora tantalio, gallio e metalli preziosi nel circuito stampato; sono tutti materiali che se recuperati possono essere impiegati nuovamente in altri prodotti. In questo modo si riducono i costi e le emissioni di produzione e si evita la continua estrazione mineraria. Per questo è fondamentale incentivare la riparazione e il riutilizzo di piccoli dispositivi elettronici, nonché il riciclo quando arrivano a fine vita.

   

Riciclo e Riuso

Attualmente gli europei potrebbero restituire smartphone usati per 700 milioni di pezzi, che oggi sono chiusi in un cassetto. Non a caso la Commissione Europa ha deciso di adottare una serie di raccomandazioni politiche per migliorare e incentivare la restituzione dei dispositivi. Tra loro sono inclusi telefoni cellulari, tablet, laptop usati e i relativi caricabatterie.

  

Il vademecum mira a supportare le autorità nazionali nel massimizzare riutilizzo, riparazione e recupero di questi piccoli dispositivi elettronici. Anche perché oggi il tasso di raccolta dei telefoni cellulari è oggi inferiore al 5% in Europa. Tra le raccomandazioni, Bruxelles chiede ai paesi membri di mettere proporre incentivi finanziari come sconti, buoni, sistemi di restituzione o premi monetari. In questo modo i cittadini europei sarebbero spinti a restituire i loro dispositivi usati alimentando un ciclo “green”. Senz’altro è necessario aumentare l’uso dei servizi postali per la restituzione e promuovere partnership. Per esempio, potrebbero collaborare i consorzi che si occupano della raccolta dei rifiuti e le realtà che preparano i dispositivi elettronici per il riuso.

   

Tutti questi consigli si concretizzano con la nascita di realtà in questo settore o con una maggiore sensibilizzazione sul tema. Dunque, ecco cosa possiamo fare con un dispositivo elettronico esausto:

  • venderlo su siti specializzati o negozi reali per prodotti elettronici di seconda mano;
  • convertirlo in una sveglia, un telecomando, una telecamera di sorveglianza, una cornice digitale e un localizzatore;
  • portarlo nei negozi di elettronica, che sono obbligati a ritirare i vecchi apparecchi;
  • rottamarlo per ricevere in cambio denaro, buoni regalo o altro;
  • donarlo durante le iniziative di beneficenza che vedono protagonisti i cellulari

Coem vediamo un telefono può avere mille funzionalità diverse, l’importante è che non venga buttato nel cestino.  Se propri vogliamo disfarci di tali prodotti è meglio portarli in un’isola ecologica che tratta i materiali RAEE (Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche). Altrimenti, se non conferiti negli appositi impianti di trattamento, diventano un pericolo per l’ambiente a causa dei veleni tossici che liberano.

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Dal sughero alla pelle vegana: il progetto della startup Lebiu.

By : Aldo |Ottobre 03, 2023 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti |Commenti disabilitati su Dal sughero alla pelle vegana: il progetto della startup Lebiu.

Il settore tessile ha bisogno di una grande innovazione legata alla sostenibilità. Negli ultimi anni sono state sviluppate le idee più disparate per poter rendere più “verde” il settore tessile, uno dei più inquinanti al mondo.  Ecco una novità.

 

Lebiu

La startup Lebiu nasce come una realtà sarda fondata da Fabio Molinas e Alessandro Sestini. I due soci derivano da settori diversi: il primo ha studiato industrial design e poi ha fatto esperienza in accademia in Spagna dove ha vissuto 11 anni. Il secondo invece è più specializzato nell’ambito finanziario e commerciale.

  

Insieme, oltre a fondare una startup, hanno creato un nuovo tessuto composto di scarti, ma non si tratta né di plastica, né di frutta. I due hanno pensato di usare gli sfridi di sughero per rivoluzionare il campo della moda. Borse, abbigliamento e accessori, sono composti da un nuovo materiale, derivato da scarti naturali e abbinato a elementi plant-based. Questa è la descrizione dei prodotti Lebiu.

 

Il sughero nel tessile

L’idea iniziale deriva dai ricordi d’infanzia di Molinas, originario di Caragianus in Gallura, il maggiore centro di produzione di tappi di sughero dell’isola.  In quelle terre la maggior parte delle famiglie ha lavorato nell’industria del sughero, quindi il materiale, ha determinato gran parte dell’infanzia del founder, il quale racconta:

ci sono cresciuto e fin da bambino ho sempre giocato con gli sfridi, la polvere generata da questa attività”

Nelle industrie, tonnellate di materiale di scarto viene incenerito poiché solo una piccola parte viene usata per la colmatazione dei tappi più pregiati. Pertanto, dopo 11 anni in Spagna, l’expat è tornano in Italia con un’importante formazione alle spalle, un’idea innovativa e la voglia di cambiare il mondo.

 

Il progetto e il materiale.

Il progetto nasce dalle conoscenze legate ai ricordi d’infanzia di Molinas e quelle riguardanti il settore tessile.  Infatti, afferma che gli sfridi sono in realtà una vera e propria farina che spesso veniva legata con la colla. Da qui si lavorava fino a renderla una sorta di plastilina da modellare dopo un passaggio in forno. Quindi l’idea c’era, il materiale pure e in abbondanza, mancava solo la realizzazione del nuovo prodotto che necessitava di fondi. A questo ci pensò la Commissione Europea che riconobbe un programma di incentivi dedicato alle industrie creative capaci di ridurre l’impatto ambientale dell’industria tessile.

 

Corskin

Il prodotto su cui converge tutto: una specie di simil pelle (al tocco) costituita da un alto contenuto di particelle di sughero. Queste ultime sono accompagnate da resine plant-based provenienti da coltivazioni OGM-Free e da campi non sottratti all’agricoltura per l’alimentazione. Si tratta di un tessuto resistente alla corrosione, impermeabile e personalizzabile con varie texture e finissaggi. In aggiunta, impedisce la formazione di muffe, per mezzo delle cere e dei tannini presenti nella biomassa, è durevole, non scolorisce ed è elastico. Infine, l’aumento dello spessore non incide sul suo peso, come invece avviene con altri materiali tecnici o naturali. L’unica pecca riguarda la lavorazione che attualmente elimina ogni profumo e odore ma la squadra è già alla ricerca di una soluzione.

Tale materiale nasce dalla combinazione di collanti alimentari che si impiegano per quelli conglomerati. Successivamente, grazie alla collaborazione con imprese specializzate in spalmati sintetici e tessili del nord Italia, la startup ha raggiunto il suo obiettivo, una struttura multistrato. Senza dubbio, Corskin è una valida alternativa che riduce l’impatto ambientale.

   

Nanocork

Attualmente è una linea secondaria dell’impresa. È un finissaggio naturale applicabile sui capi di aziende terze grazie a un processo di micronizzazione delle particelle di sughero e acqua. Questo materiale consente di risparmiare fino al 90% di acqua, prodotti chimici, ed energia e di distinguere il tessuto dagli altri. Per esempio, aumenta le prestazioni del capo in termini di isolamento termico e antistaticità ed ha un effetto naturalmente invecchiato. Quest’ultima caratteristica deriva dall’uso un pigmento naturale abbinato a sfridi, acqua e altri componenti, nebulizzato in ambiente controllato su tessuti.

Tali processi sono molto più sostenibili poiché generalmente la tintura di una maglietta comporta l’utilizzo di grandi quantità d’acqua: dai 60 ai 100 litri. Mentre con Nanocork per ogni chilo di vestiti ne basta solo un litro e mezzo.

   

Lebiu ha quindi creato dei prodotti che hanno un impatto ambientale è molto ridotto. Anche perchè si basa su una filiera di produzione controllata con certificazioni GRS (Global Recycled Standard) e USDA per il contenuto Bio-based. Valore che può variare a seconda dei prodotti, da un 45% a un 80%, con l’obiettivo di raggiungere il 95%. Con tali procedimenti e secondo le stime della società, per ogni metro di Corskin si evita l’immissione di 4,5 kg di CO2 in atmosfera.

  

Il prezzo è in linea con i tessuti di fascia medio-alta ma anche per la fascia premium degli alberghi e per l’arredamento.
Dunque, Lebiu è una realtà che ha fatto di una polvere di scarto, un tessuto di alto valore ma di basso impatto ambientale. Le vie per migliorare la nostra impronta sul pianeta sono migliaia, basta solo percorrerle nel modo e con i tempi più adeguati.

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Il sughero non è una materia infinita e noi non lo ricicliamo. Perchè?

By : Aldo |Settembre 07, 2023 |Arte sostenibile, Emissioni, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti, plasticfree |Commenti disabilitati su Il sughero non è una materia infinita e noi non lo ricicliamo. Perchè?

La raccolta differenziata e il corretto smaltimento dei materiali che usiamo quotidianamente, sono delle pratiche rilevanti per instaurare un’economia circolare.

Eppure, sembra che non siano stati studiati metodi con cui riutilizzare delle materie prime pregiate: una di queste è il sughero.

Cos’è il sughero e come si estrae

Il sughero è un tessuto secondario che riveste il fusto e le radici delle piante fanerogame come la quercia da sughero o “sughera” (Quercus suber). Si tratta di alberi alti oltre 20 m che hanno un diametro di 1,5 m e sono diffusi in maniera limitata nel Mediterraneo occidentale.  Si trovano anche in Africa settentrionale, Portogallo, Spagna e in Italia, principalmente in Sardegna dove viene coltivata e poi in Toscana, Lazio e Sicilia.

  

Il processo di estrazione del sughero è diviso in 2 azioni simili, svolte a distanza di 10 anni l’una dall’altra. Infatti, la raccolta inizia quando il tronco ha una circonferenza di 30-40 cm, quindi più o meno dopo i 20 anni di età. In questa prima fase, detta “demaschiatura” (per via del nome dato al sughero vergine, “maschio” o sugherone) si praticano delle incisioni.  Queste servono per staccare con cura le strisce di scorza, senza rovinare il fellogeno, dal quale si ricava il nuovo sughero.

  

Dopodiché, si genererà annualmente un anello e 10 anni dopo la demaschiatura lo spessore sarà di 3cm e l’albero sarà pronto per l’estrazione del sughero. La sua asportazione procede dalla base del tronco verso l’alto, poi viene tolto ogni 9-12 anni, così l’albero resta produttivo e vive fino a 150-180 anni.

Tale processo si svolge tra i primi di maggio e la fine di agosto, quando il materiale in esame si stacca più facilmente, lasciando sana la pianta.

   

Gli impieghi del sughero

Per le molteplici caratteristiche chimico-fisiche, il sughero può essere impiegato in vari ambiti. Tra le sue proprietà possiamo citare la resistenza al fuoco e all’usura, l’elasticità e l’isolamento (elettrico, termico e acustico). In aggiunta è inattaccabile da insetti e roditori ed è anche inodore, insapore, imputrescibile e non tossico.

    

Può essere usato in vari settori e in vari modi, per esempio;

  • È impiegato per la fabbricazione dei turaccioli: per la sua elasticità e di impermeabilità, grazie alle quali garantisce una chiusura ermetica delle bottiglie;
  • É utilizzato nell’industria farmaceutica e in quella cosmetica;
  • Lo troviamo ancora nella fabbricazione di solette e soprasuole per scarpe, rivestimenti isolanti, galleggianti per le reti da pesca, salvagenti, imballaggi per materiali fragili ecc;
  • Per la fabbricazione del linoleum e di agglomerati espansi, utili per l’isolamento termico e acustico degli ambienti.  

I tappi e il riciclo

I tappi di sughero sono dei prodotti di grande valore che potrebbero alimentare un grande settore dell’economia, incrementando un circolo di riciclo e riutilizzo rilevante. Solo in Italia ne vengono prodotti 1,2 miliardi all’anno e nel mondo sono almeno dieci volte tanti. Nonostante si tratti di un materiale recuperabile al 100% e non infinito, la loro vita finisce nel momento in cui viene stappata una bottiglia.

In più la crescita del settore vinicolo, determina un aumento delle pressioni sui querceti, dunque, diventa necessario trovare rapidamente un sostituto a tale materia. Per questa ragione il riciclo dei tappi sarebbe necessario, se non urgente, ma come impostarlo?

   

Sicuramente la raccolta specifica di tappi, per il singolo cittadino e le attività ristorative sarebbe un buon inizio per cambiare il trend negativo. Già con un’attività simile, potremmo incentivare il risparmio di risorse naturali ed energia, dando nuova vita al sughero.  Per esempio, si potrebbero creare nuovi tappi, realizzare strati isolanti e fonoassorbenti che migliorano le prestazioni energetiche degli edifici o suole e tacchi per le scarpe. Un esempio è il progetto Recooper a Bologna o del Comune di Tradate (Lombardia) che dal dicembre 2022 hanno attivato un punto di raccolta pubblico.

   

Una seconda opzione è quella di finanziare progetti di consorzi specializzati nel recupero e nel corretto smaltimento del sughero. O ancora ci si può indirizzare verso il fai da te, come nel caso colosso del sughero Amorim Cork. L’azienda ha preso accordi con 45 onlus sul territorio nazionale per raccogliere tappi e trasformarli in oggetti di interior design.

   

Nel mondo

Nel mondo invece sono state sviluppate altre iniziative per il riciclo del sughero in generale. Un caso è quello di Seondong a Seoul, che ha stipulato un accordo con un’impresa di costruzione di impianti sportivi specializzata nel di riciclo del sughero. L’accordo prevede la partecipazione di ben 45 commercianti di vino che raccoglieranno i tappi inviandoli all’impresa, per la creazione di passaggi pedonali vicino all’ufficio distrettuale.

   

Oppure in Portogallo nel 2005 ha posizionato i primi contenitori per la raccolta differenziata dei tappi di sughero, anche presso gli esercizi commerciali. Non a caso il portogallo è il più grande produttore di sughero, seguito da Spagna, Algeria e Italia.

   

Il riciclo e il riutilizzo sono azioni basilari per una vita e un futuro sostenibile. Senza una buona pratica di tali processi, potrebbe essere difficile mantenere la qualità di certe materie prime o garantire le stesse quantità nei prossimi anni. Proprio per questo dovremmo basarci sempre più su un’economia circolare, perchè serve a noi tanto quanto al pianeta.

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Imballaggi mono o multimateriale: qual è il packaging più sostenibile?

By : Aldo |Agosto 21, 2023 |Emissioni, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti |Commenti disabilitati su Imballaggi mono o multimateriale: qual è il packaging più sostenibile?

La sostenibilità dei packaging sembra migliorare giorno dopo giorno soprattutto grazie ai materiali scelti per la loro produzione.

In questo caso, il concetto di sostenibilità non riguarda solo la materia di cui è composto l’imballaggio, ma anche il suo possibile riciclo.

  

Riciclo e sostenibilità

Riciclare è un’azione fondamentale nell’ambito della sostenibilità e quindi dell’economia circolare; pertanto, un occhio di riguardo al tema è sempre ben accetto.

Dunque, parlando di packaging, si intende sostenibile un imballaggio monomateriale, poiché composto da una sola materia e quindi più facile da riciclare. Nonostante ciò, con i nuovi impianti e l’innovazione degli ultimi anni, anche dei prodotti multimateriali possono essere sostenibili.

Questo è possibile grazie allo studio di un prodotto (LCA), alle varie possibilità di riutilizzo e riciclo, ancor prima della sua produzione. Tale procedimento concerno lo studio dei materiali coinvolti, le loro combinazioni e i sistemi presenti per il loro riciclo.

   

Imballaggi monomateriale

Si definisce un imballaggio monomateriale, quando è composto da una sola materia. Questo tipo di prodotti si scompongono facilmente, pertanto sono si riciclano in modo semplice.

Solitamente gli imballaggi sono fatti di 3 materiali quali carta o cartone, vetro e plastica (di vario tipo). Tali materie sono usate in molteplici modi , ma una volta arrivati nel centro di riciclo, subiscono delle modifiche e dei processi diversi.

   

La carta: è composta da pasta di legno (cellulosa), per cui si tratta di un materiale facilmente riciclabile. Tuttavia, questa affermazione sarà vera solo nel caso in cui non venga trattata con certi prodotti quali rivestimenti, laminati, vernici o inchiostri particolari. In questo caso la carta non sarà riciclabile anche se monomateriale, poiché per riportarla allo stato naturale sono necessari processi chimici specifici o troppo dispendiosi.

    

Il vetro: è costituito totalmente da silice, ricavata dalla sabbia. Per questo è facile da riciclare e non a caso ha uno dei più alti tassi di riciclo tra gli imballaggi. Attraverso processi semplici, si consente la creazione di nuovi prodotti, senza perdere qualità o purezza del materiale. In questo modo il vetro risulta un tipo di imballaggio altamente sostenibile.

La plastica: essendo un polimero, può essere di vari tipi, con caratteristiche chimico-fisiche diverse che determinano un utilizzo differente. Tra i monomateriali correlati alla plastica abbiamo:

  • polipropilene (PP) un polimero termoplastico, dotato di grande durabilità, resistenza al calore e all’umidità oltre ad essere un materiale duttile. È diffuso come packaging per yogurt, tappi per bottiglie per bevande, flaconi per medicinali e pellicole.
  • polietilene (PE) è una resina termoplastica, non polare, parzialmente cristallina usata per prodotti leggeri ma resistenti. Per esempio, con il PE si creano sacchetti per la spesa e per il congelatore, pellicole termoretraibili, pluriball e bottiglie di plastica.
  • polietilene tereftalato (PET) è un materiale riciclabile al 100%, adatto al contatto alimentare. È il terzo esempio di monomateriale che può essere riciclato e trasformato in nuovi prodotti come abbigliamento, moquette o anche nuove bottiglie. Purtoppo però, scarseggiano le infrastrutture adeguate al suo riciclo che presenta un basso tasso.

Imballaggi multimateriale

Gli imballaggi multimateriale invece, sono tutti quei prodotti che sono composti da più di un materiale. In genere la scelta di un multimateriale ricade sulle caratteristiche del packaging, ossia una maggiore sicurezza alimentare, delle migliori caratteristiche fisiche ecc.

Infatti, un imballaggio di questo tipo spesso offre una maggiore resistenza, durata o funzionalità come quella dei poliaccoppiati. Un secondo tipo di multimateriale potrebbe essere una bottiglia di vetro con tappo in plastica ed etichetta di carta. In questo caso il riciclo avviene in maniera corretta se tutti i componenti vengono divisi in modo adeguato.

Nonostante ciò, a volte i multimateriali sono difficili da riciclare, poiché risulta complesso il processo di separazione dei loro componenti. Spesso risultano anche poco sostenibili visto che necessitano di processi chimici per tali procedure e per il riciclo

    

Un packaging sostenibile

Come precisato nei paragrafi precedenti però, anche i prodotti multimateriali possono essere sostenibili, se creati con opportuni materiali e con tecniche all’avanguardia.

Per esempio, ci sono tipi di cartone realizzati in combinazione con carta, plastica e alluminio che possono essere riciclate con processi specifici. Il processo prevede la separazione e il recupero di ogni materiale presente nel prodotto.

O ancora si possono usare dei materiali biodegradabili o compostabili che abbiano tutte le caratteristiche necessarie all’imballaggio, sostituendo così le classiche plastiche.

Infine, esistono nuove tecnologie che supportano il riciclo meccanico (il più sostenibile perchè privo di processi chimici), in un processo definito riciclaggio avanzato. Quest’ultimo se usato in modo complementare permette di dare una seconda vita agli imballaggi multimateriale, scomponendoli in materie prime.

In tal caso questa tecnologia consente il riuso di materie ancora in ottimo stato, quasi come materie vergini. Di conseguenza si riducono i rifiuti, le emissioni e si incrementa il mercato del riciclo, quindi l’economia circolare.

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Lidl si attiva per ridurre lo spreco alimentare: così nasce il “sacchetto antispreco”.

By : Aldo |Luglio 31, 2023 |Emissioni, Home, menorifiuti, plasticfree |Commenti disabilitati su Lidl si attiva per ridurre lo spreco alimentare: così nasce il “sacchetto antispreco”.

Sono tante le realtà nel mondo che promuovo iniziative per ridurre la produzione di rifiuti, con l’obiettivo di dare un nuovo valore a tali prodotti.

Purtoppo il settore alimentare, resta un ambito nel quale si scartano tonnellate di cibo solamente perchè non rispetta gli standard estetici del mercato. Proprio per tale ragione si parla di nuove attività per far fronte a questo problema.

    

Il “sacchetto antispreco”

Negli ultimi anni sono stati messi in atto molteplici programmi per la riduzione dello spreco alimentare anche in Italia.

I metodi scelti sono di vario tipo, tra cui si possono elencare applicazioni, offerte dei supermercati o collaborazione con enti sociali del territorio. Proprio la catena di supermercati Lidl ha sviluppato un ottimo progetto a riguardo.

Il “sacchetto antispreco” è il piano attivo da luglio 2023 che mira al recupero di frutta e verdura invendute. Questi pezzi restano solitamente in negozio perchè non belli oppure per difetti del loro packaging, ma ancora freschi e buoni per la consumazione.

Gli obiettivi di tale programma sono molteplici ma rispettano i criteri di sostenibilità che sono fondamentali ora più che mai nella nostra società.

 

I vantaggi sostenibili

Sicuramente grazie a questa idea, si riduce la mole di rifiuti della catena, si rispetta l’ambiente e si creano vantaggi economici per tutti.

I “sacchetti” sono preparati quotidianamente dal personale del punto vendita, a seconda disponibilità giornaliera di prodotti ortofrutticoli brutti ma buoni.  Di solito, queste buste di ortaggi sono posizionate nello spazio che si trova dietro le casse, in modo da invogliare i consumatori ad acquistarli.

Quindi nei negozi della Lidl sono disponibili sacchi da 4 kg di frutta e verdura, al prezzo fisso di 3 euro. In questo modo guadagna sia il supermercato che il cliente, come? Il primo crea guadagno da prodotti che solitamente avrebbe buttato, mentre il consumatore, prende ad un prezzo irrisorio una grande quantità di prodotti risparmiando.

 

Tale programma rientra nel progetto Too Good To Waste, lanciato sempre da Lidl nel 2019, che prevede sconti su prodotti vicini alla data di scadenza.  Anche grazie a questi affari si incentiva la vendita di alimenti che andrebbero buttati, abbattendo così lo spreco alimentare.

   

Insieme alla Fondazione Banco Alimentare

Non si ferma qui la lotta allo spreco alimentare della grande catena; infatti, già da tempo vanta una solida collaborazione con un importante ONLUS italiana.

“Oltre il carrello – Lidl contro lo spreco” è il nome della collaborazione tra Lidl e la Fondazione Banco Alimentare. Grazie a tale iniziativa sono state recuperate più di 31mila tonnellate di cibo, diventate 62 milioni di pasti donati a persone bisognose.

  

Nel 2017 è stato creato un team di lavoro interfunzionale per sviluppare un processo idoneo alla donazione delle eccedenze alimentari a Banco Alimentare. Nel 2018 è stata avviata la cooperazione che prevede un ritiro praticamente giornaliero degli alimenti da distribuire nel territorio.

Così facendo si aiuta anche il settore sociale, poiché i pasti creati con tali alimenti, vengono distribuiti nei centri caritativi in tutta Italia. Questo è un impegno tangibile che rafforza ulteriormente il legame del brand con il territorio.

   

La sostenibilità di Lidl

La catena di supermercati tedesca, ora diffusa in tutta Europa, sembra essere molto attenta alla sostenibilità.  La sua ottica antispreco ha reso possibile una grande ottimizzazione dei processi di ordine, stoccaggio e rotazione della merce.

In aggiunta all’impegno nei programmi appena descritti, la società si occupa anche di sensibilizzare i suoi clienti sui temi della cura dell’ambiente. Infine partecipa ad iniziative e collaborazioni con REset Plastic, Science Based Target, UN Global Impact, ABIO, PizzAut, la fondazione Umberto Veronesi e la Croce Rossa Italiana.

   

Dall’alimentare al sociale, dall’acqua al tessile, fino alla ricerca, la catena di supermercati, è molto attenta all’ambiente. Con ben 730 punti vendita in Italia punta a migliorarsi sempre più, rendendo positivo il suo impatto nel mondo giorno dopo giorno.

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