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Mojito Bio, la prima calzatura biodegradabile al 100%.

By : Aldo |Novembre 29, 2023 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti |Commenti disabilitati su Mojito Bio, la prima calzatura biodegradabile al 100%.

Il processo del riciclo è abbastanza importante quanto delicato. Si tratta di un argomento complesso che in certi casi può essere la soluzione al problema e in altri è necessario molto più del trattamento del rifiuto.  Poi però c’è chi, con le tecnologie riesce a trovare la quadra per realizzare i propri sogni sostenibili, in armonia con l’ambiente.

   

S.c.a.r.p.a

S.C.A.R.P.A è un’azienda nata nel 1938 nel cuore delle colline trevigiane ed è leader nella produzione di calzature di montagna e outdoor. Ma soprattutto è rilevante nella sua zona: non a caso il nome della società è l’acronimo di Società Calzaturieri Asolani Riuniti Pedemontana Anonima.

   

La sua caratteristica principale è la produzione di calzature tecniche per le attività montane quali il trekking, lo sci, l’arrampicata, l’alpinismo e l’escursionismo. La seconda, non per importanza è l’attenzione verso la natura e la sua salvaguardia; da qui la motivazione di renderla una “Società Benefit”. Da anni, l’azienda aveva deciso di investire sull’autonomia energetica e la sostenibilità, ma con tale cambio ha scelto di ridurre il suo impatto sul Pianeta. Mettendolo per iscritto, la società ha dichiarato il suo impegno verso l’ambiente e le generazioni future nella maniera più trasparente e diretta possibile.

  

L’aspetto ancora più genuino e sensibile di tale cambiamento è la motivazione alla sua origine. L’amministratore Diego Bolzonello spiega che “Le montagne e la Natura in generale sono il motivo stesso dell’esistenza dell’azienda”, dunque era fondamentale la sostenibilità della produzione.

 

Il Green Lab

Ben 28 anni fa, designer e i ricercatori di S.c.a.r.p.a. hanno deciso di aprire un proprio Green Lab direttamente nella fabbrica, ad Asolo. Oggi, l’azienda ha raggiunto l’autonomia energetica ed ha intrapreso percorsi per ridurre gli scarti per mezzo del processo di riciclo e riutilizzo.

   

Soprattutto, ricorda che ogni anno nel mondo vengono prodotte oltre 24 miliardi di nuove scarpe. La gran parte di queste però arriva in discarica a fine vita, soprattutto quelle da montagna perché difficili da riciclare. Tale peculiarità deriva dal fatto che per la loro produzione vengono usati un mix di materiali difficili da separare.

   

Pertanto, S.c.a.r.p.a. oltre a riciclare le vecchie calzature, ha pensato di creare una rete di risuolatori. In tal modo, ci si può rivolgere per aumentare la vita delle proprie scarpe fino a 4-5 anni. Da questi primi esperimenti sono nati dei prototipi innovativi e totalmente sostenibili, come quelli descritti nel prossimo paragrafo.


Mojito Bio e Maestrale Re-Made

Mojito Bio la prima calzatura certificata biodegradabile al 100% con performance e durabilità che rimangono inalterate. È un prototipo creato in Italia sulla base di una filiera molto attenta e totalmente certificata. Questo vuol dire che tutti i fornitori delle materie prime applicano pratiche industriali sostenibili in termini di:

  • produzione,
  • uso di prodotti chimici,
  • rispetto della salute,
  • della sicurezza e delle condizioni di lavoro dei propri dipendenti.

Inoltre, è stata certificata la biodegradabilità della scarpa, secondo lo standard ASTM D5511. Quest’ultimo misura il livello di decomposizione in assenza di ossigeno e condizioni di temperatura e umidità controllate, pari a quelle negli impianti di trattamento dei rifiuti.

Mentre Maestrale Re-Made è il primo scarpone da sci interamente realizzato con plastiche ricavate da scarti di produzione. Nello specifico, la società dal 1995 ha stoccato e catalogato ben 3 tonnellate di scarti, per poi trasformarli in una calzatura super tecnologica, solo vent’anni dopo. Il risultato è proprio questo nuovo scarpone che segue una filosofia tutta sostenibile.

    

Così facendo S.c.a.r.p.a ha ridotto del 32% le emissioni di CO2 legata alle plastiche di origine fossile usate per la produzione delle calzature. Per arrivare ad azzerarle invece, l’azienda si è affidata alle energie rinnovabili, che dovrebbero tagliare circa mille tonnellate di CO2. Tutto ciò sarà possibile grazie ad un impianto fotovoltaico da 700 megawatt installato sul tetto ad Asolo.

    

L’azienda che ha altrettanti progetti in ballo conta già 50 Re-shop tra Lombardia, Veneto e in Trentino-Alto Adige. Questi negozi accettano di raccogliere scarpe usate del modello Mojito, con l’obiettivo di arrivare a 15mila paia di scarpe. Dopo la loro raccolta verranno ne realizzate altrettante con gli stessi standard di qualità e sicurezza. Ma S.c.a.r.p.a. non si ferma solo in Italia perché ha addirittura negozi in Francia, Austria e Germania, fino a contare 250 negozi in tutta Europa.

    

È forse questo i Made in Italy che dovremmo finanziare, ovvero la filiera italiana sostenibile? Potrebbe essere questa, una possibilità di affermarci nuovamente in Europa e nel mondo?

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Roma inaugura la prima CER che ha come centro una scuola.

By : Aldo |Novembre 27, 2023 |Arte sostenibile, Efficienza energetica, Home |Commenti disabilitati su Roma inaugura la prima CER che ha come centro una scuola.

Quando si parla di sensibilizzazione spesso si pensa alle scuole, o ad incontri e lezioni in aula rivolte ad un pubblico di vario tipo. La scuola è sicuramente un ente in cui si formano i ragazzi che possono essere parte attiva del cambiamento per il loro stesso futuro. Come nel caso della scuola di Roma, diventata il fulcro di una CER.

    

Le CER

Le comunità Energetiche Rinnovabili, sono una forma innovativa di produzione e condivisione di energia, per ridurre i costi e le emissioni di CO2. Tale sistema permette di coinvolgere tante realtà come i cittadini, attività commerciali, amministrazioni locali e piccole-medie imprese. Tuttavia, è importante la collaborazione tra due o più soggetti per la produzione di energia destinata all’autoconsumo, scambio e in caso di surplus, cessione alla rete.

    

La produzione condivisa, consentita tramite impianti che possono appartenere anche a terzi, comporta benefici sia economici che ambientali. Infatti, questi sistemi favoriscono nuove opportunità occupazionali per le piccole e medie imprese coinvolte nello sviluppo, gestione e manutenzione degli impianti. Proprio nella giornata di ieri, la Commissione Europea ha promosso il decreto del MASE per incentivare le comunità energetiche (Cer), sbloccando aiuti per 5,7 miliardi.

     

La CER a Roma

A Roma la prima CER è arrivata a dicembre del 2022, nel quartiere della Vittoria in viale Sant’Angelico ed è nominata “Le Vele”. L’obiettivo di tale sistema è quello di abbattere l’emissione di 41 tonnellate di CO2, equivalenti a 1.365 alberi piantati. Nello specifico la CER gode di un impianto di 90 Kw che produrrà̀ circa 120 mila kWh di energia pulita l’anno. Tutto questo grazie alla collaborazione di 3 soggetti ossia, il I municipio, Federconsumatori e l’Istituto Leonarda Vaccari.

     

Un altro record è quello che riguarda la prima CER nata intorno ad una scuola. L’Istituto Moscati di via Padre Semeria è il fulcro di questa comunità, grazie alla collaborazione tra VIII Municipio, RomaTre, Comune e associazioni di cittadini. La scuola ora rappresenta non solo un luogo di formazione ma anche un simbolo di sostenibilità e cooperazione tra cittadini, università ed altri enti.

    

La scuola nella CER

La CER dell’VIII Municipio ed approda nell’Istituto comprensivo Moscati di via Padre Semeria, sul tetto della quale sono stati installati dei pannelli fotovoltaici. L’istituzione dell’impianto garantisce un grande risultato che non riguarda solo il risparmio economico e una transizione energetica, ma un processo di partecipazione democratica.

    

Questo è solo uno il primo di una serie di progetti in fase di avvio a Roma. Il piano stato presentato nell’aula magna del Rettorato dell’università Roma Tre, con un workshop dal titolo “Comunità energetiche rinnovabili il ruolo delle amministrazioni locali”. Non a caso l’iniziativa è stata presentata come un laboratorio di interesse universitario e comunale, che può valorizzare maggiormente il patrimonio dei tetti pubblici. Inoltre l’energia prodotta può aiutare il quartiere ed è così che il programma diventa simbolo di cambiamento ambientale e sociale.

    

È importante ricordare che con tale progetto, la scuola sarà in grado di risparmiare sui costi dell’energia e di abbassare le emissioni grazie alle rinnovabili. In più, i profitti derivati dal piano, saranno investiti in attività di inclusione e di sostegno per famiglie in povertà energetica. Dunque, come detto in precedenza, l’iniziativa ha finalità educative, ambientali, economiche e sociali.

    

Iniziativa e cooperazione

La particolarità di questa idea è proprio la sua origine. Infatti il tema scuola è al centro del progetto proprio per volere dell’Associazione “ScuolaLiberaTutti” composta dai genitori degli studenti. Proprio l’associazione ha proposto all’VIII Municipio e alla scuola di costituire una Cer finanziata dall’organizzazione stessa. Il municipio che ha accolto l’idea è poi riuscito a trovare fondi pubblici per realizzare l’impianto fotovoltaico da 15 KW: ora manca solo la connessione.

   

In tutto questo vi è anche lo zampino dell’Università Roma Tre. L’ateneo ha osservando i movimenti, ha pensato di partecipare mettendo a disposizione i suoi edifici per realizzare altri impianti che serviranno per autoconsumo e produzione. Oltre ai benefici elencati precedentemente, l’università ha colto l’occasione per pensare ad ipotetici e futuri progetti didattici e master specifici. 

 

All’incontro ha partecipato anche Andrea Catarci, assessore alle Politiche del personale, al decentramento, partecipazione e servizi al territorio per la Città dei 15 minuti. L’assessore ha sicuramente portato un barlume di speranza nel tunnel della lenta burocrazia delle CER italiane e principalmente quelle romane. Catarci ha infatti dichiarato che Roma, in 3 anni, avvierà almeno una Cer in ogni municipio e coinvolgerà altre 300 scuole.

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La funivia delle mele: l’innovazione per limitare traffico e inquinamento.

By : Aldo |Novembre 22, 2023 |Arte sostenibile, Efficienza energetica, Home |Commenti disabilitati su La funivia delle mele: l’innovazione per limitare traffico e inquinamento.

Le nuove tecnologie fanno avanzare il mondo sotto tanti punti di vista. Di certo hanno facilitato molte attività ma non per questo determinano, a priori, un danno alla cultura e alle tradizioni di una popolazione.

    

Il consorzio Melinda

L’azienda Melinda è un consorzio che produce ogni anno circa 400.000 tonnellate di mele nelle valli di Non e Sole. È composta da oltre 4.000 famiglie di soci produttori, raggruppati in 16 cooperative, che vivono e coltivano il melo nelle Valli citate.

   

Queste coltivazioni sono rappresentano non solo il grande fulcro del Trentino. Infatti, alla fine dell’Ottocento, piantare alberi di melo si è rivelata la salvezza per la comunità della Valle di Non. In quegli anni si diffusero velocemente malattie che colpiscono gelsi e vite; dunque, molte famiglie sono costrette a emigrare: tante ma non tutte. Coloro che provarono a resistere si giocarono la carta della coltivazione di mele, una scommessa che risultò vincente.

   

Da lì, l’abbondanza dei raccolti supera presto il fabbisogno della comunità, quindi si passa all’esportazione, un’altra attività trionfante. Alla fine degli anni 30 del Novecento, il 40% della frutta trentina viene dalla Valle di Non e da qui parte il 70% dell’esportazione. Successivamente negli anni 60-70 è boom: il successo delle mele della Val di Non porta lavoro per tutti, benessere, ripopolamento dei paesi. Il consorzio è una punta di diamante del Bel Paese, ma oggi è anche una grande realtà sostenibile soprattutto dopo l’ultima trovata.

   

Il progetto PNRR

Il progetto di Melinda ha vinto il bando previsto dal Pnrr dedicato alle migliori idee per lo sviluppo della logistica agroalimentare. Con questa vittoria si classifica al secondo posto su un totale di cento proposte che hanno avuto accesso ai fondi. Il piano era già stato presentato al Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare e delle Foreste e al Parlamento europeo come buona pratica di sostenibilità ambientale.

   

L’idea è quella della prima funivia in Italia, che possa trasportare le mele dell’azienda, riducendo emissioni di CO2, traffico e carburante. Il costo complessivo del programma è di 10 milioni di euro, di cui 4 arriveranno come contributo a fondo perduto dal PNRR

   

Si tratta di un impianto monofune ad agganciamento automatico a tre piloni con 11 piloni di sostegno con un dislivello di 87m. Tale sistema potrà trasportare ogni ora 460 contenitori impilabili o “bins”, alla modica velocità di 5 m/s lungo un viaggio a dir poco peculiare. Infatti, l’itinerario partirà dalla sala di lavorazione di Predaia e arriverà fino alla Miniera di Rio Maggiore; lì entrerà nelle cave estrattive di dolomia. Dopodiché prosegue per altri 430 metri all’interno di una galleria per raggiungere le celle ipogee: qui le mele entrano in un “frigorifero naturale”.

    

Impatto ambientale

Questo progetto ha degli importanti e validi sviluppi sostenibili, che apportano una rilevante innovazione nel Paese: ripartiamo proprio dalle celle. L’ambiente in esame ha una temperatura controllata nel cuore delle Dolomiti che permette di risparmiare il 30% di corrente elettrica rispetto a un magazzino tradizionale. Inoltre, elimina la necessità di dover costruire nuovi edifici in superficie.

    

Di certo, entro il 2024 in Val di Non, 40mila tonnellate di frutta non viaggeranno più lungo l’autostrada. In particolare, oggi sono necessari 10 camion che effettuano complessivamente 80 viaggi al giorno, trasportando ciascuno 36 bins. Nello specifico non si effettueranno più 6000 viaggi con i tir, togliendo dalla strada un traffico pari a 12000 km/anno, riducendo l’inquinamento in un ambiente molto delicato.

    

Nonostante ciò, Melinda è sostenibile da tempo, grazie a tanti accorgimenti che vanno a dalla riduzione delle emissioni, dell’energia e dell’acqua. Ma arriva anche alle coltivazioni biologiche, non intensive e alla salvaguardia della fauna che abita le valli del Trentino. Senza dubbio, questo nuovo programma potrà solo dare ancora più valore alla riqualificazione del centro visitatori al frutteto quale potrà partire un percorso dedicato.

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Granchio blu: dalle cucine ai laboratori di ricerca per l’estrazione di chitina.

By : Aldo |Novembre 21, 2023 |Arte sostenibile, Consumi, Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Granchio blu: dalle cucine ai laboratori di ricerca per l’estrazione di chitina.

Quando si verifica un’invasione di un territorio di una specie aliena (animale o vegetale che sia), ci si trova sempre in una situazione delicata. È importante valutare l’impatto di ogni passaggio, metodo di monitoraggio e riqualifica degli ambienti colonizzati ecc. Ma ci sono dei casi in cui tutto questo sembra molto più semplice di quanto sembri.

     

L’invasione del granchio blu

Sono ormai anni che si parla dell’invasione del granchio blu e della sua pericolosità per biodiversità del Mediterraneo. Avendo già esaminato questa situazione nel tempo, ci si può accorgere di come la narrazione di tale problema sia cambiata radicalmente nell’arco di un anno.

   

Se prima il granchio blu faceva preoccupava tutti, non si trovavano modi per limitare la sua riproduzione o i suoi movimenti, ora è oggetto di discussioni culinarie. Infatti, come abbiamo riportato qualche mese fa, il granchio blu è arrivato nelle pescherie italiane, proprio per ridurne la quantità in mare. Poco dopo il suo exploit, chef e cuochi amatori hanno proposto svariate ricette a base del crostaceo, rivoluzionando l’idea della specie aliena invasiva e pericolosa.

   

Tale passaggio è stato accolto così positivamente e rapidamente, che il granchio blu sembra far parte della nostra dieta da sempre. Ma nonostante si tratti di un buon metodo per limitare la colonizzazione delle nostre acque, c’è chi è andato oltre. Nello specifico l’Università Ca’ Foscari ha intrapreso un corso di ricerca per riscontrare nuovi e possibili utilizzi della specie aliena, che possano incrementare l’economia sostenibile.

    

Il team e la ricerca

L’Università Ca’ Foscari di Venezia sta sviluppando un metodo per estrarre la chitina dal carapace dei granchi blu per farne nanomateriali per futuri impieghi. Il team costituito da:

  • La professoressa di Chimica generale e inorganica, Claudia Crestini,
  • il professore di Fondamenti chimici delle tecnologie, Matteo Gigli,
  • dottorando Daniele Massari del Dipartimento di Scienze Molecolari e Nanosistemi,
  • la professoressa Livia Visai e la dottoressa Nora Bloise dell’Università di Pavia,

è riuscito a brevettare una tecnica per trasformare la chitina in nanomateriali intelligenti, grazie alle nuove tecnologie e alla versatilità del materiale stesso.  Tra i vari ambiti di ricerca, la squadra conta la biomedicina, i packaging sostenibili e la protezione per i materiali scrittori.

   

L’obiettivo di questi studi è quello di isolare la chitina dai gusci in una modalità efficiente e funzionale all’industria. Per ora il team è in grado di isolare e modificare chimicamente una frazione nanocristallina della chitina, creando delle nanostrutture. Quest’ultime sono state impiegate per lo sviluppo di materiali straordinariamente innovativi, attraverso processi scalabili a livello industriale.

   

Industria alimentare

La chitina determina un mercato globale di 1,8 miliardi di dollari, derivato principalmente all’industria alimentare, agrochimica e sanitaria. Non a caso il gruppo di ricerca si è specializzato in questi ambiti, primo fra tutti l’alimentare, con nuovi film e packaging sostenibili.

    

Infatti, i ricercatori stanno sviluppando film nanostrutturati che possono sostituire le plastiche tradizionali per realizzare pellicole flessibili completamente biobased. Con la seguente aggiunta di composti naturali si potrebbero ottenere anche capacità antiossidanti ed antimicrobiche. Le proprietà funzionali di tali prodotti consentono di prolungare la durata della conservazione dei cibi proteggendoli da processi che ne accelerano il deterioramento. È importante anche ricordare che si tratta di film e pellicole biodegradabili, quindi, si potrebbero creare packaging che aderiscono pienamente ai principi di circolarità.

    

In ambito sanitario

Oltre al settore alimentare, la squadra si è interessata anche a quello sanitario. Un esempio è legato ai film flessibili, che abbinati a sostanze di origine naturale possono trasformarsi in validi patch medicali, cerotti speciali. Tale operazione è possibile grazie alla loro biocompatibilità ed emocompatibilità. Inoltre, possono avere una composizione chimica diversa per ottenere film adesivi o antiadesivi con proprietà simili all’eparina. Così facendo si possono offrire soluzioni nuove e personalizzate per le esigenze mediche.

     

La chitina per la scrittura

Passando da un ambito all’altro, si può notare l’importanza e la grande versatilità della chitina, poiché può aiutare anche nella conservazione di materiale scrittorio antico.  Gli studiosi hanno sviluppato un progetto rivolto ai rivestimenti (coating) per il restauro e la conservazione di tale materiale. In più, la proteina ha la capacità di rallentare e prevenire diversi fenomeni di degradazione della carta inchiostrata: come?  Essenzialmente la chitina riesce a contrastare l’aumento di acidità della carta e contrastare la proliferazione di microrganismi. Inoltre, è capace di impedire il deterioramento delle proprietà meccaniche della carta, rinforzando le sue fibre.

     

Si può affermare che l’università abbia iniziato un processo di upcycling, col quale trasforma biomasse di scarto in prodotti sostenibili e ad alto valore aggiunto. Tutto questo rientra in un ciclo di economia circolare poiché, la chitina viene estratta dagli scarti dell’industria ittica (specialmente di granchi e gamberetti). Quindi l’emergenza per l’industria ittica del nordest, riguardante il granchio blu, rappresenta un’ottima occasione per sperimentare nuove tecniche e prodotti.

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Città sostenibili: Bressanone diventa un modello di volontà ed efficienza.

By : Aldo |Novembre 14, 2023 |Efficienza energetica, Home |Commenti disabilitati su Città sostenibili: Bressanone diventa un modello di volontà ed efficienza.
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Per rendere una città sostenibile è necessario sviluppare programmi efficaci che includano un cambiamento graduale della quotidianità. A volte ci si dimentica di alcune attività commerciali, di certi servizi necessari, ma poco a poco, con i giusti metodi si può arrivare al risultato previsto. Ecco un esempio.

   

Il modello Bressanone

Bressanone, in provincia di Bolzano, è la città più antica del Tirolo ed è nota per le sue numerose attrazioni, storiche, artistiche, culturali e ambientali. Documentata per la prima volta nel 1901, Bressanone gode di buone temperature che alimentano il turismo in ogni stagione, anche e soprattutto quello sportivo. Si parla di comprensorio sciistico ed escursioni, trekking estivo e snowboard invernale.

    

Questa città di 23.000 abitanti situata in uno scenario dalla bellezza mozzafiato sta attirando molte attenzioni anche per altri motivi. Non si tratta solo di paesaggi, storia e arte ma anche di temi “green”. A Bressanone, infatti, è iniziata una transizione ecologica, una rivoluzione per una maggiore sostenibilità che ha scaturito grandi risultati visibili a tutti.

     

L’obiettivo è quello di ridurre l’impatto sull’ambiente della località, nell’interesse della popolazione e delle generazioni future. I programmi sono stati sviluppati proprio dalle autorità locali che si sono fatte carico dell’impegno di preservare la città con una gestione sostenibile delle risorse naturali. Tra le varie iniziative ci sono progetti per la mobilità, un consumo opportuno dell’acqua, nuovi metodi di riscaldamento e tanto altro.

      

Fontanelle, festival e riscaldamento

Le autorità di Bressanone hanno intrapreso un percorso per migliorare la distribuzione d’acqua, il suo consumo e per renderlo più sostenibile. Infatti, nel 2019 è stata avviata la campagna “Refill Your Bottle”, con l’obiettivo di eliminare la plastica dalla montagna Plose. In questo modo gli stessi rifugi hanno bandito la plastica monouso (bicchieri, cannucce, bottigliette d’acqua) offrendo al contempo delle borracce in acciaio inox. Questo piano ha incentivato il consumo d’acqua per mezzo del refill delle borracce. Successivamente, nel 2021, la campagna è stata estesa a tutta la località, grazie alle targhette “Refill” su oltre 50 fontanelle di Bressanone e dintorni. Tale iniziativa ha garantito un approvvigionamento gratuito d’acqua potabile di alta qualità.

    

Ma non è finita, perchè questa importante risorsa ha una grande rilevanza per la comunità, tanto che dal 2017 organizza il Water Light Festival. Si tratta di un evento primaverile, che invita a una consapevolezza rispettosa della natura e a un uso sostenibile delle risorse idriche. Il tutto però è sempre rapportato alla cultura, alla tradizione locale e alla storia del territorio. Un ultimo passo importante sarà quello dell’abolizione della plastica nel parco acquatico Acquarena.

    

Ultimo ma non per importanza, un altro utilizzo dell’acqua nella località in esame. Si parla di riscaldamenti: infatti gli abitanti di Bressanone hanno deciso di affidarsi al teleriscaldamento, un metodo di riscaldamento che utilizza acqua calda invece del gas. Questa novità ha migliorato enormemente la qualità dell’aria e il bilancio di CO2.

    

Biciclette e parcheggi

Anche nel settore della mobilità sostenibile sono stati fatti grandi passi in avanti. Non a caso, l’efficiente rete di trasporti pubblici è stata potenziata, determinando un aumento costante del numero di utenti. Mentre per limitare gli spostamenti con mezzi propri sono nati dei garage di design che invogliano i clienti a scendere dall’auto e dimenticarla per tutto il tempo del soggiorno.

    

Anche in questo caso, la comunità ha saputo compensare la mancanza di auto con efficienti servizi di mobilità “attiva” in bicicletta e a piedi. Quindi sono stati ampliati la rete ciclabile, il prestito di e-bike ai residenti (eBike2Work) e l’educazione alla mobilità sostenibile. Mobilità integrata con l’adozione di Bicibox, parcheggi coperti e chiusi a chiave prenotabili via app, per parcheggiare la bicicletta in sicurezza.

    

Valorizzazione materie e rifiuti

Di certo, in una transizione come questa, non manca la raccolta differenziata che ha raggiunto il 75% della raccolta dei rifiuti. Mentre il restante 25% finisce all’inceneritore di Bolzano che poi immette il calore nella rete di teleriscaldamento. Il target è stato raggiunto grazie agli innovativi contenitori elettronici seminterrati, che consentono l’apertura del portello con una tessera magnetica nominale di identificazione. Il “bidone” ha un sistema di pesatura integrato che attribuisce a ogni utilizzatore l’esatto peso dei rifiuti gettati, per la relativa fatturazione. In tal modo c’è maggior consapevolezza della quantità di rifiuti non riciclabili prodotti.

    

Infine, è attiva la raccolta degli oli alimentari esausti prodotti dai privati e dalla ristorazione per evitare che finiscano nella rete fognaria. Quanto raccolto viene rigenerato per la produzione di biodiesel.

   

Dunque si può affermare che Bressanone abbia una popolazione lungimirante, che si impegna per le generazioni future. Una comunità che fa della sostenibilità un punto focale della vita quotidiana anche e soprattutto legata al divertimento e al tempo libero. Non a caso tutte le manifestazioni organizzate o supportate dal locale ufficio del turismo sono certificate “green event”. Quindi si tratta di una città che ha carpito il vero valore della transizione godendo e condividendo i benefici da essa derivati anche con gli altri.

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L’aeroporto internazionale “Leonardo da Vinci” punta al Net Zero.

By : Aldo |Novembre 13, 2023 |Emissioni, Home, menomissioni, obiettivomeno emissioni |Commenti disabilitati su L’aeroporto internazionale “Leonardo da Vinci” punta al Net Zero.

Nonostante le crisi e le rilevanti questioni burocratiche, l’Italia resta una sicurezza per quanto riguarda le eccellenze. Una tra queste però non riguarda il cibo, la moda, i paesaggi o l’artigianato, per questo stupisce tutti da anni.

    

Aeroporto “Leonardo da Vinci”

L’aeroporto internazionale “Leonardo da Vinci” di Fiumicino venne inaugurato nel 1961, 45 anni dopo quello di Ciampino.  Da quel momento e rispetto al primo progetto esecutivo, si svolsero interventi di ampliamento, che resero la struttura di Fiumicino, il primo aeroporto di Roma. Successivamente vennero assegnate tutte le attività a un unico gestore, la società Aeroporti di Roma. Quest’ultima divenne concessionario esclusivo per la direzione e lo sviluppo del sistema aeroportuale della Capitale. L’aeroporto è diventato nel tempo uno dei più importanti in Italia e nel 2019 ha registrato 49,4 milioni di passeggeri con oltre 240 destinazioni. Tutto questo è stato possibile anche grazie alle circa 100 compagnie aeree operanti nei due scali e a tutte le infrastrutture presenti.

    

Inoltre, negli ultimi cinque anni Aeroporti di Roma ha ricevuto numerosissimi premi, riconoscimenti e attestazioni di qualità, tra cui:

  • AIRPORT SERVICE QUALITY AWARD, assegnato da ACI World per la categoria di aeroporti europei con oltre 40 milioni di passeggeri all’anno. Questo premio è stato consegnato a ADR dal 2017 al 2021, per l’alto livello di soddisfazione dei passeggeri;
  • ACI EUROPE BEST AIRPORT AWARD, per la categoria di aeroporti con oltre 40 milioni di passeggeri all’anno. Il premio ottenuto negli anni 2018, 2019, 2020, 2022, riconosce l’eccellenza in diverse discipline. Tra queste la sicurezza, le operazioni, le infrastrutture, le relazioni con la comunità, la consapevolezza ambientale e il customer care.
       

Il piano per il Net Zero

ADR ha incrementato anche la sua attenzione verso la sostenibilità attuando anno dopo anno, nuovi piani e strategie per la salvaguardia dell’ambiente. Dal 1999 la società ottiene l’ISO 14001 che accerta un sistema di gestione adeguato nel mantenere sotto controllo gli impatti ambientali delle sue attività. Nell specifico, l’aeroporto è carbon neutral dal 2013, mentre nel 2021 risultò il primo scalo in Europa a ottenere ACA4+, la più alta certificazione sulla decarbonizzazione.

    

In più, dal 2018, il gruppo ha messo a punto una vera e propria roadmap per consentire lo sviluppo sostenibile degli aeroporti della Capitale. In tal modo sarà possibile lavorare sull’ulteriore riduzione dell’impatto delle strutture aeroportuali, che sotto vari aspetti, sostengono una vera e propria città. L’obiettivo è il target Net Zero Emission entro il 2030, con venti anni di anticipo rispetto a quanto prefissato a livello di settore aeroportuale europeo. Ovviamente per raggiungere tale meta, sono necessari progetti di vario tipo e di vari sistemi, tra cui quello energetico e idrico.

     

Sistema energetico

L’azienda ha già impostato dei cambiamenti importanti legati a questo settore. Per esempio, è già in atto, una conversione vero i veicoli elettrici usati in aeroporto, verso i biocarburanti. Senz’altro inizieranno dei percorsi per l’efficientamento energetico delle infrastrutture. Tuttavia, la società per questo settore punta tutto su due temi fondamentali. Uno riguarda la riduzione graduale dell’uso di energia elettrica derivata da fonti fossili e l’altro sono le fonti rinnovabili.

     

Per il raggiungimento di questi obiettivi, ADR ha stretto una collaborazione con Enel X, per rendere la pista 3 dell’aeroporto di Fiumicino, una solar farm. Si tratta di una superficie di 340 mila m2 di pannelli solari; quindi, del più grande impianto fotovoltaico in autoconsumo in un aeroporto europeo.Il progetto consentirà una produzione a regime di circa 32 GWh di energia pulita e ad eliminare 11mila tonnellate di anidride carbonica dall’atmosfera. Una quantità comparabile a quella sottratta da una foresta di 100 mila nuovi alberi. Inoltre, con un progetto parallelo, l’energia prodotta in eccesso, verrà stoccata in un sistema composto da batterie di seconda mano provenienti dal settore automobilistico.

    

Sistema idrico

Mentre per quanto riguarda il sistema idrico, sono stati sviluppati dei programmi molto minuziosi ma anche peculiari. L’aeroporto presenta una rete idrica duale che separa acqua potabile dal depuratore biologico. In questo modo la società risparmia più di 1,2 milioni di m3 di acqua l’anno, che arriva dall’acquedotto pubblico. Dopodiché, l’acqua trattata arriva in un laghetto schermato dal sole grazie a migliaia di palline blu e viene ossigenato da 3 fontane. Quest’acqua viene poi usata per alimentare gli impianti termici, la rete antincendio, il sistema di innaffiamento delle aree verdi e le cassette dei wc.

    

Per il sociale

Non manca ovviamente il terzo pilastro della sostenibilità ovvero il settore sociale. Infatti, l’aeroporto promuove la diversità e l’inclusione sia per mezzo di strutture adeguate (rampe, ascensori e percorsi per persone con disabilità) sia con iniziative ricreative. Tra queste l’intrattenimento musicale, culturale e storico grazie all’organizzazione di mostre, concerti e spettacoli in loco.

     

ADR, comunque, non si ferma a qui ed è già in moto per sviluppare un programma firmato nel 2021. Il Patto per la Decarbonizzazione del Trasporto Aereo, un’alleanza promossa dalla società con lo scopo di accelerare il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità del settore.

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New Delhi soffoca nuovamente: multe per chi non rispetta le regole e scuole chiuse.

By : Aldo |Novembre 09, 2023 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su New Delhi soffoca nuovamente: multe per chi non rispetta le regole e scuole chiuse.

Lo smog è un problema di tutte le grandi metropoli e delle città urbanizzate. Sicuramente è presente a livelli diversi di pericolosità ma resta sempre un fattore dannoso per la salute dell’uomo e della natura.

   

New Delhi

Con circa 15 milioni di abitanti New Delhi è la terza città dell’India in ordine di grandezza. È il centro politico e amministrativo dell’India unificata e meta di una immigrazione continua, che scopre un mondo fatto di contrasti e contraddizioni.  Nonostante ciò, si tratta di un paese in via di sviluppo, dove l’informatica, internet e le nuove tecnologie stanno cambiando la popolazione.  Queste sue caratteristiche determinano processi positivi ma anche negativi che si palesano nella vita quotidiana degli indiani spesse volte. Tra queste il fermo delle attività durante le giornate “grigie”.

   

Così, venerdì (3 novembre) la città si è svegliata con il livello più alto di inquinamento mai registrato. Secondo l’India Central Pollution Control Board i dati sono molto più alti del valore ritenuto sano dall’OMS. Nello specifico, lunedì l’indice ha raggiunto il valore di 450, mentre venerdì in alcune aree, il picco di 800 (secondo l’India Central Pollution Control Board). Tali livelli oltre ad essere anormali sono gravi e pericolosi per tutti (anche per la visibilità che sulle strade si è abbassata a 300 m).

   

Lo smog

Ogni anno, nel periodo autunnale, New Delhi si trova sormontata da una cappa di smog acre. Quest’ultimo però non è dato solo dall’utilizzo di veicoli, abitudini e risorse poco sostenibili. A questi fattori bisogna aggiungere gli incendi delle stoppe da parte degli agricoltori dei vicini Stati agrari, un problema rilevante e poco monitorato.  Nonostante i divieti e la minaccia di multe salate, i contadini delle zone agricole a nord e nord-ovest di Nuova Delhi continuano le loro attività.

Questo è certo grazie alle rilevazioni di satelliti e droni che hanno identificato oltre 2500 incendi. Il loro fumo viene poi trasportato dai venti verso la capitale dove finisce ristagna e si combina con gli altri inquinanti, producendo la densa nebbia. Tutto questo è possibile anche a causa delle basse temperature e la mancanza di vento nella città.

   

Dunque per ridurre ulteriori rischi, le autorità locali hanno previsto incentivi economici per chi acquista macchinari in grado di smaltire gli scarti in altro modo. Bhagwant Mann, funzionario del governo del Punjab, ha affermato che nel suo territorio queste misure hanno ridotto del 30% la quantità di scarti bruciati annualmente.

     

Pericoli sanitari

A seguito di questi fenomeni annuali, la città è regolarmente classificata come una delle più inquinate del pianeta. Inverno, il livello di PM 2,5 è spesso più di 30 volte il livello massimo stabilito dall’OMS. Quest’ultima afferma che, una buona qualità dell’aria corrisponde a un indice compreso tra zero e 100, ma Delhi registra picchi molto più elevati.

 

Mentre una seconda analisi afferma che l’esposizione prolungata a un livello superiore a 300 può portare a malattie respiratorie e problemi di salute a lungo termine. Le persone intervistate in questi giorni, infatti, confermano lo stato di affaticamento, sonnolenza, lacrimazione degli occhi e irritazione della gola che peggiora di ora in ora. Inoltre, l’inquinamento di Delhi è responsabile della morte prematura di 1,67 milioni di persone (2019) e della riduzione dell’aspettativa di vita in media di 12 anni.

 

Ripari e soluzioni

Le autorità hanno annunciato più volte piani per limitare le sostanze tossiche presenti nell’aria, senza grandi risultati quindi puntualmente passano alle misure restrittive. Per prima, la chiusura d’emergenza delle scuole per l’intera settimana, che non ha migliorato la situazione. Pertanto, il governo ha vietato anche la circolazione ai veicoli inquinanti (benzina, diesel) e i lavori di costruzione.

Nonostante il blocco dei cantieri sono stati mantenuti attivi quelli considerati essenziali, come quelli che coinvolgono metropolitane, aeroporti e condutture idriche. Nel frattempo, in molti negozi sono finiti i filtri per i depuratori d’aria, di cui molte persone stanno facendo scorta.

    

Tuttavia, quest’anno gli incentivi sono stati indirizzati in altri progetti per la risoluzione di tale problema. Per affrontare l’annosa questione dell’inquinamento atmosferico, il governo indiano ha varato a ottobre una “Green War Room”. Si tratta di un centro di coordinamento ad alta tecnologia, dove 17 esperti monitorano l’andamento dello smog in tempo reale. Questo è possibile grazie a immagini satellitari della NASA e gli aggiornamenti dell’indice della qualità dell’aria misurato dai sensori. Questa “Sala” è a tutti gli effetti una piattaforma di coordinamento collegata a 28 agenzie governative.

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Gomma naturale: in crisi la sua produzione che danneggia la foresta.

By : Aldo |Novembre 05, 2023 |Arte sostenibile, Home, Rifiuti |Commenti disabilitati su Gomma naturale: in crisi la sua produzione che danneggia la foresta.

Non è raro che per una maggiore sostenibilità si torni alla natura. Spesso molte innovazioni si rifanno a processi e dinamiche naturali, consentendo una nuova valorizzazione di Madre Terra e i suoi sistemi. Purtoppo però, senza degli studi, delle legislazioni o dei monitoraggi opportuni, anche quello che è naturale può causare danni irreparabili.

   

La produzione di gomma

La gomma naturale (o caucciù) deriva dal lattice, estratto da piante tropicali, tra cui la più importante, la Hevea brasiliensis (o albero della gomma). Conosciuta e importata in Europa dal Sud America fin dal Settecento, oggi se ne producono circa 20 milioni di tonnellate all’anno. Si riscontra in percentuali diverse in un’ampia varietà di oggetti, tra cui pneumatici, suole di scarpe, cancelleria, elastici, guaine isolanti per i cavi, elettrodomestici. E ancora profilattici, palloni e palline da sport, guarnizioni di motori, protesi, guanti usa e getta.

   

Recentemente, per una combinazione di vari fattori, la produzione non riesce più a far fronte alla domanda globale. Questo ha spinto la ricerca verso lo sviluppo di materiali simili, incrementando la produzione di una gomma sintetica, che ovviamente ha un impatto ambientale negativo. Per questo e per le sue fondamentali caratteristiche è difficile allontanarsi dalla produzione naturale, che tuttavia arreca danni al pianeta con ritmi sempre più elevati.

    

La materia prima sta finendo

L’albero della gomma, originario del Rio delle Amazzoni, oggi si trova esclusivamente in Thailandia, Indonesia, Malesia, Cina e Myanmar e in Africa occidentale. Dagli anni ’30 infatti, la sua coltivazione in America Latina si arrestò a causa di un parassita che ne ostacolò la crescita. L’infezione potrebbe arrivare anche in Asia e in Africa grazie all’intensificazione del cambiamento climatico che ha già arrecato danni in Tailandia. Infatti, lunghi periodi di siccità e gravi alluvioni hanno favorito la diffusione di patogeni e malattie delle piante, che hanno ridotto la produzione.

 

Tali meccanismi non sono poi aiutati dal mercato, che negli ultimi anni ha mantenuto basso il prezzo della gomma.  Quest’ultimo è fissato dallo Shanghai Futures Exchange (SHFE), dunque le speculazioni sul valore della gomma, sono spesso slegate dalla realtà nelle piantagioni. Così per incrementare i profitti, gli agricoltori sono indotti a sfruttare eccessivamente gli alberi, incidendo il tronco più a fondo e più volte. Così facendo, hanno esposto le piantagioni ad un progressivo indebolimento e una maggiore vulnerabilità rispetto alle malattie che determinano una minore produttività.

   

Per non parlare della tendenza di convertire le coltivazioni di Hevea in quelle più redditizie, colpevoli delle deforestazioni e perdita della biodiversità.

     

La deforestazione

Purtoppo come spesso accade, questo tipo di attività non sono seguite dalle istituzioni, o non sono regolamentate in modo opportuno. Queste falle del sistema incrementano l’abbattimento di intere foreste, causando danni globali e irreversibili. Nature ne parla nel suo nuovo studio, affermando che dal 1993 le piantagioni hanno distrutto 4 milioni di ettari di foresta del Sud-est asiatico. Nello specifico, la ricerca conferma che le coltivazioni di Hevea brasiliensis, hanno spazzato via un’area due, tre volte superiore a quanto stimato in precedenza. Pertanto, è uno dei principali rischi per gli ecosistemi della regione.

     

Nel 90-99% dei casi, la deforestazione è legata alla produzione di materie prime da esportazione, con filiere non regolamentate o controllate dagli enti predisposti. Risulta dunque fondamentale, lo sviluppo di strategie di prevenzione ad hoc che aiutino a preservare uno dei più importanti ecosistemi del Pianeta.

   

L’analisi dimostra che 1 milione di ettari di tali aree, sono importanti hot-spot di biodiversità. In particolare, le piantagioni di gomma hanno provocato la maggior deforestazione in Indonesia, seguita da Tailandia e Vietnam. Lo studio così afferma che le normative e le iniziative messe in campo dalle nazioni del Sud-Est asiatico sono poco efficienti, perché basate su dati imprecisi. O meglio, dati che sottostimano fortemente il problema.

    

In conclusione

La situazione è dunque complicata poiché, le infezioni, il mercato e il cambiamento climatico, ostacolano la produzione di gomma naturale. Quest’ultima da anni è causa di una crescente deforestazione che mette a rischio l’ambiente delle aree prima citate. Usare a gomma quella sintetica è una soluzione presa in considerazione di recente che tuttavia incrementerebbe l’impatto dell’industria sul pianeta.

    

Per questo si richiedono nuove leggi, maggiori studi e monitoraggi delle coltivazioni. Infine, sarebbe importante rendere tali filiere sostenibili, istituire organi e normative efficienti, per ridurre l’impatto ambientale della produzione descritta.

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Olimpiadi a Tahiti: il “no” dei surfisti per proteggere la biodiversità.

By : Aldo |Novembre 03, 2023 |Acqua, Clima, Home |Commenti disabilitati su Olimpiadi a Tahiti: il “no” dei surfisti per proteggere la biodiversità.

Sport e ambiente sono due categorie che ultimamente vengono affiancate con una maggiore frequenza. In particolare, sono sempre più numerose le iniziative in cui gli sportivi svolgono attività di sensibilizzazione sul tema ambientale e della sostenibilità. Tuttavia, in un caso recente, questi due ambiti sono stati temi di discussione e proteste da parte di un’intera popolazione.

    

Teahupo’o

Teahupo’o è un villaggio che si trova nella costa sud-occidentale di Tahiti (Polinesia francese). È un noto paradiso che si divide tra terra e mare, nonostante, quest’ultimo sia artefice delle onde più pericolose al mondo. Non si tratta di onde alte (la più grande misura “solo” 3 metri) ma di tubi veloci e molto potenti, che attirano surfisti da tutto il mondo.

    

È superfluo dire che il turismo di questo posto è molto legato al surf. Le sue acque vennero scoperte nel 1986 e da lì in poco tempo divennero famose e uniche al mondo per la loro caratteristica. Si iniziò a diffondere il messaggio ed oggi ospita l’annuale Billabong Surf Pro Tahiti, tappa del Campionato Mondiale (WCT) della Association of Surfing Professionals. Il livello è talmente alto che durante questi campionati, la Marina francese proibisce a tutti di entrare in acqua, pena l’arresto.

   

L’arrivo delle Olimpiadi

Il surf è stato inserito il surf nel programma olimpico, solamente nella XXXII Olimpiade, quella di Tokyo 2020 (svoltasi nel 2021 causa COVID). Pertanto, nel 2024 rivedremo i surfisti di tutto il mondo competere in territorio francese molto lontano da Parigi. Proprio Teahupo’o è stata scelta come meta per lo svolgimento gli eventi del surf di Parigi 2024. La Francia non poteva scegliere luogo migliore di questo, peccato però, che la preparazione delle strutture olimpiche abbia già sollevato varie proteste.

    

Sicuramente, portare un evento così peculiare come le Olimpiadi, in un posto tanto distaccato dal resto del mondo non è facile. Ma ora è ancora più difficile proseguire con i lavori poiché la popolazione di Teahupo’o sta manifestando contro la realizzazione di una grande torre d’acciaio. Di cosa si tratta?

   

Nelle gare di surf svolte a Tahiti, i giudici sono sempre stati collocati in una piattaforma rialzata di legno in mezzo al mare. Questa posizione serve per poter osservare e giudicare adeguatamente le prestazioni degli sportivi in acqua. Ma la scelta della struttura (la sua composizione, altezza, grandezza) non è casuale ed è il motivo per il quale surfisti e cittadini di Teahupo’o hanno iniziato a protestare.

    

No alla torre di acciaio

La commissione olimpica e gli organizzatori delle Olimpiadi vogliono costruire una torre di 14 metri di acciaio per valutare da vicino le gare. Si tratta di una struttura necessaria come spiegato prima, che prevede una serie di standard da rispettare, per una migliore permanenza dei giudici. Nella torre ci saranno aria condizionata, internet ad alta velocità, toilette e servizi per garantire un minimo di comfort e sicurezza a giudici ed operatori. La richiesta di tali prestazioni richiede una struttura di un certo tipo, lavori di grande rilevanza e quindi un impatto maggiore sull’ambiente. Questa è la ragione alla base di proteste e manifestazioni da parte dei cittadini di Teahupo’o e dei surfisti di tutto il mondo.

   

Non sfidate Teahupo’o e la sua onda leggendaria. Il messaggio è chiaro ed è ovvio che non si riferisca solamente alle onde marine, ma anche ai movimenti coesi dell’intero popolo. Effettivamente la costruzione servirebbe per soli 3 giorni di competizione, ma i suoi impatti saranno molto più duraturi nel tempo. Al contrario della torre in legno usata in tutte le precedenti gare, a Teahupo’o che, veniva montata e poi successivamente smontata.

   

La struttura ideata dalla commissione olimpica ha bisogno di basi più solide e lavori che, impatteranno pesantemente sul reef e la barriera corallina dell’area. Potrebbe influenzare in modo particolare anche il delicato equilibrio di faglie, correnti e conformazioni sottomarine e quindi la formazione delle onde stesse. O almeno questo è quello che pensano i surfisti, le comunità di Tahiti e tutti coloro che si battono per lo stesso scopo. Una costruzione simile potrebbe modificare negativamente gli equilibri biologici di quel paradiso e disturbare sistemi ecologici rari e preziosi. La critica è rivolta anche verso le misure spropositate della nuova struttura, rispetto alla sua funzione.

    

Vivendo di surf (per turismo e abitudini), la comunità è conscia del fatto che una torre per i giudici servirà ma avanza una proposta. Anziché pensare a una nuova torre (di € 4 milioni) basterà utilizzare quella in legno ed eco-progettata vent’anni fa, che ha sempre funzionato. E soprattutto non arreca danni alla natura.

     

La controparte

Nonostante ciò, gli organizzatori spingono per la realizzazione dell’opera negando i rischi indicati finora da surfisti e dalle associazioni. Spiegano infatti che la nuova torre, la quale ospiterà giudici, medici e produzioni televisive, sarà pensata per avere un “basso” impatto sugli ecosistemi. In più, affermano che risulterà un valore aggiunto anche per le competizioni future e che possa avere altre funzioni nei prossimi anni. L’esempio usato è quello di alcune piattaforme offshore, le cui basi, nel tempo, sono diventate casa per coralli ed ecosistemi.

    

Purtoppo le 400 persone mobilitate non tranquillizzano i polinesiani sul futuro del loro immenso tesoro e la loro preoccupazione resta altissima. Anche se fosse a “basso impatto” come promette la commissione olimpica, il reef subirà un’influenza maggiore rispetto all’erezione della struttura in legno. È anche vero, che la torre in acciaio, comprende una serie di criteri e standard in ambito di sicurezza e salubrità dettate da un regolamento interno.

   

Nei prossimi mesi, vedremo se questa opposizione (pacifica) riesca a portare ad una soluzione concreta e opportuna per entrambe le parti. In ogni caso, si spera sempre che decisioni di questo tipo prendano sempre più in considerazione un punto così importante come la salvaguardia dell’ambiente.

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Gli imballaggi devono essere riutilizzati: il nuovo regolamento UE.

By : Aldo |Ottobre 26, 2023 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti, plasticfree, Rifiuti |Commenti disabilitati su Gli imballaggi devono essere riutilizzati: il nuovo regolamento UE.

Nonostante le nuove misure riguardanti i rifiuti, lo smaltimento e il riciclo, c’è ancora tanto da fare. Pertanto, l’Europa si è mossa nuovamente per proporre una nuova direttiva, che purtoppo non piace all’Italia.

   

Il quadro europeo

Ogni anno nell’UE si producono ben 2,2 miliardi di tonnellate di rifiuti di cui più di un quarto (il 27%) è rappresentato da rifiuti urbani. Viste le cifre è abbastanza semplice affermare che i paesi più ricchi tendono a generare più rifiuti per abitante. Questo è confermato dagli studi che hanno descritto una specifica condotta dei vari paesi membri. Per esempio, tra il 2018 e il 2021 i rifiuti urbani per abitante sono diminuiti a Malta, Cipro, Spagna e Romania. Mentre sono aumentati, toccando i picchi più alti in Austria, Lussemburgo, Danimarca e Belgio. I numeri più bassi sono stati registrati in Spagna, Lettonia, Croazia e Svezia.

    

Se invece si restringe il campo ai soli rifiuti da imballaggio, la situazione non sembra migliorare. Secondo le statistiche, nell’ultima decade la situazione è peggiorata passando da 66 milioni di tonnellate di rifiuti da imballaggi nel 2009, a 84 milioni nel 2021. Un aumento di grande rilevanza che ha culminato appunto, con la produzione di 188,7 kg di rifiuti di imballaggio all’anno per ogni europeo. Per quanto analizzato dai ricercatori, questa tendenza non diminuirà, anzi continuerà a crescere a dismisura fino a toccare i 209 kg per abitante nel 2030.

     

Le nuove misure

Per questo la Commissione ambiente del Parlamento europeo ha appena adottato, una nuova proposta di regolamento. Questa punta a una maggiore facilità d’uso del packaging, con lo scopo di ridurre tutti gli imballaggi inutili e i rifiuti prodotti del continente. La proposta è passata con 56 voti a favore, 23 contrari e 5 astensioni; l’Italia però non l’approva.  La proposta (Packaging and Packaging Waste Regulation) passerà alla votazione dell’Assemblea plenaria per poi iniziare i negoziati finali con il Consiglio Ue tra un mese.

    

La normativa nasce per porre uno stop drastico a questa avanzata; dunque, l’UE propone di puntare tutto sul riuso, il recupero e il riciclo. Le idee riportate sono varie e coprono diversi aspetti:

  • vietare la vendita di determinati sacchetti di plastica leggeri (inferiori a 15 micron);
  • ridurre in generale i rifiuti in plastica degli imballaggi;

Precisamente l’obiettivo è quello di apportare una riduzione graduale: 10% entro il 2030, 15% entro il 2035 e 20% entro il 2040. Arrivando anche a determinare delle percentuali minime del contenuto riciclato delle parti in plastica entro la fine del 2025. Si pensa anche alla possibilità di fissare obiettivi e criteri di sostenibilità anche per le bioplastiche. Ed infine si suggerisce di garantire un numero minimo di riutilizzo dei vari imballaggi per semplificare sempre più il processo di riuso.

    

Altri punti importanti della norma, riguardano ristoranti e caffè e i distributori finali di cibi e bevande d’asporto. Proprio loro dovranno garantire ai consumatori la possibilità di portarsi il proprio contenitore. Mentre si parla anche del divieto dell’uso di PFAs e delle sostanze chimiche eterne (forever chemicals), che possano essere a contatto con gli alimenti. C’è un punto anche per la raccolta differenziata: si chiede Paesi membri di differenziare al 90% dei vari materiali da imballaggio entro il 2029.

  

L’Italia contraria

Germania e Francia hanno accolto la proposta con grande entusiasmo poiché certi processi sono già in atto nelle loro città. Per esempio, nella prima, l’abitudine del riuso è comune e molto diffusa per prodotti quali latte, acqua e birra. Tuttavia, insieme, questi due stati hanno richiesto delle flessibilità in modo da adattarsi nel tempo e deroghe in base alle abitudini dei cittadini. Anche l’Austria esulta ma ricorda l’importanza di osservare le regole sulla sicurezza alimentare.

    

L’Italia invece non ci sta. Si oppone al voto, ricordando le risorse usate e gli sforzi fatti per puntare sul riciclo, di cui è leader europeo. Con le nuove norme invece, si ritroverebbe davanti a politiche di riuso che potrebbero penalizzare diversi settori, dalla ristorazione alla distribuzione. Il pensiero è condiviso dai vari ministeri a Confindustria, Coldiretti, Cia, Confagricoltura e Confcommercio.

Confcommercio ribadisce che la nuova proposta potrebbe danneggiare la filiera alimentare perché gli imballaggi sono fondamentali per

  • protezione e conservazione degli alimenti,
  • l’informazione al consumatore e la tracciabilità,
  • l’igiene dei prodotti.

Tutti questi punti sono fondamentali perché ne consentono anche la commercializzazione e l’export. Anche il ministro Gilberto Pichetto Fratin, ricorda che il modello vincente italiano deve essere valorizzato. Pertanto, afferma, che continuerà la lotta per difendere la filiera innovativa e virtuosa, che supera i target Ue con diversi anni di anticipo.

     

Dunque, in attesa dell’Assemblea plenaria prevista dal 20 al 23 novembre, l’Italia continuerà a difendere la qualità del suo made in Italy. Così continuerà ad opporsi per valorizzare anche gli sforzi e gli impegni (anche economici) fatti in questi anni.

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Youth4Climate: le proposte dei giovani per combattere il cambiamento climatico.

By : Aldo |Ottobre 24, 2023 |Arte sostenibile, Emissioni, Home, i nostri figli andranno ad energia solare |Commenti disabilitati su Youth4Climate: le proposte dei giovani per combattere il cambiamento climatico.
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La COP28 di Dubai si avvicina, ci sono dubbi e perplessità per quanto riguarda gli esiti di tale riunione, ma una cosa è certa. I giovani non stanno con le mani in mano e hanno la mente piena di idee per contrastare il cambiamento climatico.

Youth4Climate

Youth4Climate è un’iniziativa globale, guidata dall’Italia e dal Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP). È un progetto co-modellato con giovani e altri partner quali:

  • Connect4Climate – World Bank Group,
  • la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC)
  • Secretariat (UN Climate Change),
  • l’Ufficio dell’Inviato del Segretario Generale per la Gioventù
  • il Gruppo Consultivo dei Giovani del Segretario Generale delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici
  • YOUNGO (collegio ufficiale dei bambini e dei giovani dell’UNFCCC).

Questo programma riunisce risorse, strumenti, capacità, partnership, reti e movimenti online e offline esistenti e nuovi da e per i giovani. Rivolge una grande attenzione nel sostenere l’implementazione di soluzioni per il clima guidate dai giovani con finanziamenti e altri tipi di supporto. Tutto questo con lo scopo di determinare un impatto climatico più sostenuto sul territorio.

    

Dal 2021, è diventato un evento annuale, forse il più atteso del settore, che riunisce attivisti, innovatori, rappresentanti governativi, agenzie ONU, organizzazioni private e non profit. La prima volta si svolse a Milano nell’ambito del Summit pre-COP. Qui i delegati dei giovani di tutto il mondo hanno condiviso la loro visione e le loro richieste in quattro aree tematiche:

  • i giovani guidano l’ambizione
  • la ripresa sostenibile
  • l’impegno degli attori non statali
  • la società attenta al clima

Nel 2022 si tenne a New York il Youth4Climate: Powering Action. Questo evento ha lanciato la collaborazione tra il governo italiano e l’UNDP per renderlo un’iniziativa a lungo termine a sostegno dei giovani leader del clima.

     

Roma 2023

Quest’anno lo Youth4Climate si è svolto a Roma nei giorni 17, 18 e 19 ottobre. Qui sono arrivati 130 under 30 provenienti da 63 Paesi per confrontarsi sulle azioni possibili per il clima. In questo caso, il Mase ha gestito l’iniziativa globale in collaborazione con il Centro del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP). Lo “Youth4Climate: Sparking Solutions 2023” è un evento che segue una prima fase avviata a New York, dove a settembre sono stati raccolti ben 1143 progetti. Di questi solo i migliori 40 sono arrivai a Roma. L’iniziativa articolata in 3 giorni, si divide tra Palazzo Rospigliosi e Casina di Macchia Madama.

   

L’apertura è stata affidata all’inviato speciale italiano per il Clima Francesco Corvaro e il Coordinatore del Centro UNDP di Roma Agostino Inguscio. Dopo una prima presentazione sono seguiti quattro panel di confronto tra i giovani sui temi della sostenibilità urbana, energia, alimentazione e agricoltura, educazione. Il secondo giorno, ha aperto i lavori il Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin. Successivamente i giovani si sono messi all’opera su altri temi come: giustizia climatica, approccio unitario tra privato e pubblico nella sfida ambientale. E ancora il supporto finanziario e tecnico all’inclusione dei giovani nel processo di cambiamento, terminando con l’accensione serale del Colosseo con il logo di Youth4Climate. L’evento si è concluso con la premiazione dei progetti, presidiata dal Ministro Pichetto Fratin e dal Ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale Antonio Tajani. Per concludere in bellezza, il maestro Giovanni Allevi ha sorpreso tutti dedicando un video ai giovani della Youth4Climate, spronandoli a fare sempre di più.

 

I vincitori

Tra questi 40 progetti, alcuni hanno spiccato in specifici settori. Per la categoria “Energia” si riportano:

  • “Emisa Enterprise” di Isaac Chiumia dal Malawi. Ha ideato una stufa che fa risparmiare circa 4-5 tonnellate di emissioni di CO2 all’anno rispetto alla cucina tradizionale. In questo modo si riducono i tempi di cottura e i costi del combustibile fino al 60%.
  • “Enable the disable action” di Sylvain Obedi Katindi della Repubblica democratica del Congo. Il progetto prevede l’inclusione di giovani e persone con disabilità nelle azioni climatiche, rafforzando la loro educazione ambientale e occupazione nell’imprenditoria ecologica.

Nel settore “Alimentazione e agricoltura:

  • “Seed of Life” di Errachid Montassir dal Marocco. L’idea è di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla conservazione dell’ambiente promuovendo i benefici dell’arboricoltura attraverso la piantumazione di alberi da frutto biologici.
  • “Nabd Development and Evolution Organization (NDEO)” di Muna Alhammadi dallo Yemen. Propone la diffusione di pratiche climaticamente intelligenti. Un esempio sono le serre domestiche con sistemi di irrigazione a goccia per aiutare le famiglie ad adattarsi ai cambiamenti climatici.

Oltre a questi c’è un podcast per insegnare agli ucraini come ricostruire il Paese in modo green dopo la guerra. Si parla di batterie riciclate che portano l’elettricità nelle zone rurali della Colombia e del cemento per costruire aree di aggregazione ricavato dalle discariche di Delhi.

     

Tale iniziativa dimostra ancora una volta, quanto i giovani siano pronti a contrastare il cambiamento climatico. Non si tratta solo di attivismo, ma di ragazzi con un bakground di grandi studi e ricerche che si uniscono per un fine comune. Quello di rendere il mondo un posto migliore.

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Start Cup Puglia 2023: cioccolato mediterraneo e monitoraggi ambientali.

By : Aldo |Ottobre 19, 2023 |Arte sostenibile, Home, i nostri figli andranno ad energia solare |Commenti disabilitati su Start Cup Puglia 2023: cioccolato mediterraneo e monitoraggi ambientali.

Per il sedicesimo anno consecutivo, si è svolta la Start Cup Puglia, che ha fatto spiccare molteplici giovani realtà del territorio.

     

L’evento 2023

Le Start Cup regionali continuano e il 18 ottobre si è conclusa la selezione in Puglia, con un evento ospitato dalle Officine Cantelmo di Lecce. Quest’anno la ricerca, le idee e l’innovazione sono andate oltre qualsiasi aspettativa con un podio interessante e variegato.

   

Foreverland conquista il primo posto con l’invenzione del Frecao, seguito da MyBon con la sua piattaforma nazionale per gli scontrini. Infine, troviamo Ember Laptops con il suo laptop innovativo e Preinvel che presenta la prima tecnologia di filtraggio fluidodinamico brevettato ad aria. Oltre alla selezione principale sono stati consegnati altri due premi:

  • “Premio regionale per l’innovazione” per il vincitore assoluto della Start Cup 2023
  • “Premio speciale per il miglior progetto di impresa ad impatto sul climate change” Green&Blue offerto dal Gruppo Gedi, media partner del PNI.

A seguito di tale evento i progetti finalisti accedono alla finale del Premio Nazionale Innovazione, che si svolgerà a Milano nei giorni 30 novembre e 1 dicembre 2023.

    

Foreverland: primo vincitore

La startup vincitrice è costituita da quattro giovani, Massimo Sabatini, Giuseppe D’Alessandro, Riccardo Bottiroli e Massimo Brochetta. Questi ragazzi hanno unito forze e conoscenze (di esperienze rilevanti in multinazionali) per determinare un impatto positivo nel mondo. Il loro obiettivo è quello di affrontare le criticità ambientali ed etiche legate alla produzione di cibo. Così si sono concentrati su un alimento che piace a tutto il mondo, è sempre più richiesto ed è parte della nostra quotidianità: il cioccolato. La loro ricerca è partita dalle origini del prodotto più amato al mondo, di cui pochi conoscono il vero iter di produzione.

    

Foreverland ha studiato le fasi di raccolta, produzione e trasporto del cioccolato e i dati estratti, sottolineano l’impatto negativo sul mondo della sua industria:

  • è responsabile del 45% della deforestazione in Costa d’Avorio e in Ghana;
  • più di 1,5 milioni di bambini vengono sfruttati per la sua raccolta;
  • richiede circa 24.000 litri d’acqua per ogni chilogrammo prodotto;
  • è il secondo prodotto al mondo per emissioni di CO2 dovute alla logistica e allo sfruttamento delle terre.  

    

Per queste ragioni, i ragazzi che alle spalle hanno delle grandi esperienze nell’ambito delle multinazionali, si sono uniti per creare un cioccolato alternativo. Così nasce Freecao, un ingrediente rivoluzionario per il settore dolciario, privo di cacao, ma creato a partire dalla carruba.  Quest’ultima è un legume poco conosciuto e valorizzato che in Italia invece cresce in abbondanza rendendola il secondo produttore mondiale. Si parla quindi di una svolta ecologica, ambientale ma anche più etica: si può definire Freecao come un’innovazione sostenibile a tutti gli effetti poiché prevede:

  • una riduzione dell’80% delle emissioni di CO2;
  • una riduzione del 90% del consumo di acqua;
  • è privo dei principali allergeni (latte e frutta a guscio);
  • non contiene glutine o caffeina;
  • ha il 50% in meno di zuccheri (rispetto ad un cioccolato al latte tradizionale);
  • non contiene ingredienti artificiali.

    

Dunque, siamo di fronte ad un nuovo alimento che risulta più sano per il consumatore, più sano per il pianeta e anche più etico. Questo perché sono state scelte coltivazioni locali di carrube, in cui è escluso lo sfruttamento minorile. Precisamente tra 29 giorni, sarà possibile assaggiare questo cioccolato mediterraneo, cacao free al 100%, vegano e sostenibile: chissà quale sarà la risposta dei consumatori?

     

Flying DEMon: premio speciale Green&Blue

Il premio speciale “Green and Blue” invece è stato consegnato a Flying DEMon, una startup legata al monitoraggio ambientale. L’impresa nasce proprio nel 2023, grazie ad un gruppo di ricercatori INFN che in breve tempo ha vinto anche il premio dell’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile. Il team registrato alla Camera di Commercio, accreditato come spinoff dell’Università di Bari ha prevalso con un programma sul monitoraggio ambientale.

    

La missione di Flying DEMon è quella di fornire servizi nel settore della rilevazione e nel monitoraggio ambientale di elementi radioattivi. Questo è possibile grazie all’esperienza e alle competenze del team legate ad anni di Ricerca e Sviluppo nell’ambito di esperimenti di fisica astroparticellare.

La startup barese propone un sistema per semplificare e velocizzare il monitoraggio ambientale per la ricerca di sorgenti radioattive presenti sul territorio. Come? Con un detector FHERGA – Flying High Efficiency fast-Response Gamma affiancato da sensori per immagini ottiche e iperspettrali, installati in un drone di 10 kg. In aggiunta, la squadra ha pensato alla progettazione di un’elettronica dedicata alla acquisizione e analisi di dati in tempo reale.

     

L’evento è stato organizzato da ARTI – Agenzia regionale per la tecnologia e l’innovazione, in collaborazione con Regione Puglia, PNI e Comitato Promotore. Tale cooperazione ha permesso l’istituzione di grandi premi come quello del primo posto, del valore di €10 mila il diritto di accesso al PNI.

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Coradia Stream: il primo treno a idrogeno d’Italia.

By : Aldo |Ottobre 17, 2023 |Arte sostenibile, Efficienza energetica, Emissioni, Home, obiettivomeno emissioni |Commenti disabilitati su Coradia Stream: il primo treno a idrogeno d’Italia.

La transizione ecologica prevede una serie di cambiamenti all’interno della maggior parte dei settori che riguardano i servizi basilari di ogni città. E come ogni grande rivoluzione si deve partire da un punto più o meno complesso: nel nord Italia si parte dai trasporti su rotaie.

     

La presentazione

Arriva dopo tanta attesa l’innovazione che cercavamo. Il primo treno a idrogeno d’Italia è pronto per portare un grande cambiamento nella Valcamonica (BS) e nel territorio circostante. Il prototipo è stato presentato durante l’EXPO Ferroviaria 2023 alla quale hanno partecipato le società produttrici, le aziende di trasporti e tanti altri. Tra questi FNM e Alstom, che sono i nomi principali di questa novità italiana e che vantano anni di successi nel settore ferroviario e non solo.

    

L’idea riportata nell’accordo siglato a novembre 2020 è quella di far passare il treno lungo la linea Brescia-Iseo-Edolo in Valcamonica, nell’ambito di H2iseO. La linea attiva dal 2025 sarà la base per la realizzazione per la prima Hydrogen Valley italiana.

   

Coradia Stream

Coradia stream, è il primo treno ad idrogeno d’Italia ed è la soluzione all’obiettivo europeo di azzerare completamente le emissioni di C02 entro il 2050. La sua entrata in scena segna l’inizio di una nuova era nel trasporto ferroviario passeggeri nella Penisola. Si tratta del primo treno a zero emissioni dirette di CO2 per l’Italia, ha 260 posti a sedere e un’autonomia superiore a 600 km.

    

Nello specifico il mezzo presenta una carrozza intermedia chiamata “Power Car”, nella quale risiede il cuore della tecnologia ad idrogeno. L’energia è fornita dalla combinazione dell’idrogeno (immagazzinato nei serbatoi) con l’ossigeno dell’aria esterna, senza emissione di CO2 nell’atmosfera.  Mentre le batterie agli ioni di litio ad alte prestazioni immagazzinano l’energia. Quest’ultima viene successivamente sfruttata nelle fasi di accelerazione per supportare l’azione delle celle a idrogeno e garantire il risparmio di carburante.

    

Nonostante i cambiamenti, le società produttrici assicurano il mantenimento degli elevati standard di comfort già apprezzati dai passeggeri nella sua versione elettrica. Inoltre, garantiscono anche le stesse prestazioni operative dei treni diesel, compresa l’autonomia. Infine, il Coradia potrà operare sulle linee non elettrificate in sostituzione dei treni che utilizzano combustibili fossili.
     

Accordi, obiettivi e progetti

L’accordo siglato a novembre 2020 prevedeva la fornitura a Trenord di 6 treni a celle a combustibile a idrogeno con opzione per ulteriori otto. Il progetto è stato promosso da FNM, FERROVIENORD e Trenord, H2iseO, società che hanno lo stesso punto di vista sulla sostenibilità e lo stesso obiettivo. Quello di sviluppare in Valcamonica una filiera economica e industriale dell’idrogeno. Partendo dal settore della mobilità, si passerebbe alla conversione energetica del territorio per poi contribuire alla decarbonizzazione di una gran parte del trasporto pubblico locale.  

    

Tale progetto altamente innovativo include la realizzazione di 3 impianti di produzione, stoccaggio e distribuzione dell’idrogeno rinnovabile senza emissioni di CO2. Oltre a questo, è prevista la messa in servizio di 40 autobus ad idrogeno in sostituzione dell’intera flotta oggi utilizzata da FNM Autoservizi.

 

Le società e l’attivazione

Come anticipato il treno entrerà in servizio in Valcamonica verso l’inizio del 2025, lungo la linea non elettrificata Brescia-Iseo-Edolo di FERROVIENORD (servizio viene gestito da Trenord). Nonostante ciò, il progetto è stato presentato alla fiera e creato da FNM e Alstom.

   

FNM è attualmente il principale Gruppo integrato nella mobilità sostenibile in Lombardia ed è uno dei principali investitori non statali italiani del settore. Alstom invece, è leader globale nella mobilità intelligente e sostenibile. Si occupa di treni ad alta velocità, metropolitane, monorotaie, tram, sistemi chiavi in mano. Ma anche di servizi, infrastrutture, segnalamento e alla mobilità digitale ed è fornitore e manutentore del Gruppo FNM da oltre 15 anni. Insieme hanno collaborato per l’ideazione del progetto, concretizzato in molteplici siti sparsi per il nord Italia.

    

Studi, tecnologie e ricerche hanno uno scopo comune, ovvero quello di sviluppare progettualità a tutto tondo che facciano crescere la cultura aziendale. In tal modo si caratterizzano i processi industriali e le soluzioni compatibili con la tutela dell’ambiente, il risparmio energetico, tutto anche a servizio dei cittadini.

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L’Oréal Italia: lo stabilimento è il più innovativo e sostenibile in Europa.

By : Aldo |Ottobre 16, 2023 |Acqua, Arte sostenibile, Consumi, Home |Commenti disabilitati su L’Oréal Italia: lo stabilimento è il più innovativo e sostenibile in Europa.

La sostenibilità è un punto cruciale delle nostre vite da anni e lo sarà sempre di più. Sicuramente realtà come le grandi aziende hanno un potere immenso per poter limitare il loro impatto sulla Terra. Non a caso c’è chi ancora ha difficoltà ad affrontare un cambiamento del genere e chi invece ne ha fatto la caratteristica principale del brand.

    

L’Oréal

“La bellezza è il nostro DNA” e L’Oréal da più di 110 se ne prende cura in mille modi diversi. Il gruppo è leader mondiale nel settore della bellezza, a partire dalla prima tinta per capelli prodotta nel 1909. La sua missione? Offrire a tutte le donne e gli uomini del pianeta il meglio della bellezza in termini di qualità, efficacia, sicurezza e responsabilità.

    

Oggi L’Oréal è diffuso in ben 150 paesi, comprende 88.000 dipendenti, di cui 4000 scienziati e 5500 esperti in tecnologia e digitale. Gode di 6 premi per l’innovazione, è tra le 5 aziende più attraenti per gli studenti e comprende 36 brand affidati a 4 divisioni. I suoi prodotti si trovano ovunque, dai saloni di parrucchieri alle profumerie, dalle farmacie alla grande distribuzione, coprendo tutti i campi della cosmetica.

     

Impegni e certificazioni

Il gruppo L’Oréal vanta una serie di impegni, cambiamenti e certificazioni sostenibili che la rende una delle migliori aziende anche nella tutela dell’ambiente. Tra i molteplici riconoscimenti si possono citare:

  • Ecovadis: medaglia di platino, tra le top 1% delle migliori compagnie al mondo (per la prestazione ambientale, sociale, l’etica, i diritti e la sostenibilità);
  • Tripla A CDP (7 anni di seguito) come leader nella lotta al cambiamento climatico (per la sicurezza delle acque e la protezione delle foreste);
  • Premio Ethisphere 2022 come una delle aziende più etiche del mondo (per il tredicesimo anno);
  • Riconosciuta dal Bloomber Gender-Equality index 2023 come pioniera della parità e la diversità (per il sesto anno consecutivo).

Oltre a questi attestati, da quanto viene riportato nel sito web, il 65 % dei loro sedi produttive è “Carbon neutral”. Se l’azienda francese si è impegnata tanto per arrivare a questo livello, non c’è da stupirsi dell’innovazione e l’avanguardia del centro di Settimo Torinese.

     

Lo stabilimento pioniere

L’Oréal Italia ha sede a Milano e un centro produttivo a Settimo Torinese attivo dal 1960. Realizza prodotti che vengono distribuiti in 29 paesi, infatti è tra i primi 4 stabilimenti in Europa e i primi 10 nel mondo. Copre una superficie di 55 mila m2  e conta ben 340 lavoratori.  Nacque durante il boom economico e da subito intraprende un percorso per aumentare la sostenibilità della propria produzione. I primi articoli sulle emissioni di C02 e il consumo di acqua sono arrivati nel 2010 e nel 2013 sono iniziati vari progetti. L’Oréal Italia è considerata uno dei precursori della sostenibilità e non a caso il suo stabilimento è stato il primo a diventare “water loop factory”.

    

Il centro è improntato su una filosofia “automazione e green economy” e dal 2005 ad oggi ha raggiunto due grandi obiettivi: zero emissioni e zero rifiuti. Questo è stato possibile grazie ai passi fatti negli ultimi 20 anni, in maniera graduale, consapevole ed efficiente.

     

2015: l’azienda si dichiara “carbon neutral” dopo l’installazione di 14 mila pannelli solari e il passaggio a fonti alternative.

    

2018: l’acqua viene riutilizzata grazie a un impianto di ultrafiltrazione; nasce la waterloop factory. Con un impianto super innovativo lo stabilimento ricicla 40 milioni di litri d’acqua l’anno (una quantità pari a ottanta piscine lunghe venticinque metri). Il processo che trasforma il liquido torbido del lavaggio in acqua limpida inizia e finisce a pochi metri dalle linee di produzione. Essere waterloop factory, significa che il sito usa acqua solo nella composizione dei prodotti, mentre, per gli altri processi viene filtrata e riutilizzata. Inoltre, si usa un “superconcentratore” che aiuta a ricavare più acqua possibile dai fanghi usati, soprattutto per il mascara.  Anch’essi saranno probabilmente riusati in futuro; l’idea è quella di usarli per la composizione di una vernice ignifuga.

      

2020: milioni di flaconi di shampoo e balsamo nascono al 100% da Pet riciclato, assicurando un risparmio di oltre 3 mila tonnellate di plastica vergine. E poi ancora, la plastica che non diventa flacone di shampoo si trasforma in una sedia, oppure in un tavolo della mensa. Per ridurre l’inquinamento legato al trasporto dei nuovi flaconi, si è scelta una fornitura a km zero, in tutti i sensi. Questo perché arriva da un imprenditore che lavora direttamente nello stabilimento, come se si eliminassero 1000 camion all’anno.

      

Nonostante ciò, l’azienda ha stampanti 3D per ricreare pezzi in caso di rottura e ricicla perfino i mozziconi di sigaretta. In questo modo L’Oréal Italia abbatte ogni anno 9 mila tonnellate di CO2, una quantità paragonabile ad aver tolto dalla strada 3 mila auto a benzina.

      

L’automazione e i robot

Un’altra peculiarità dello stabilimento è la presenza di 18 robot che aiutano, velocizzano e automatizzano i processi produttivi.  Sono 18 carrelli automatici guidati da laser, governati da un software che cooperano con operai e tecnici nella fabbrica.  In tal modo sono stati tagliati i tempi di produzione al punto che si confezionano 200 flaconi di shampoo al minuto. 

      

Sicuramente la questione degli automatismi nelle fabbriche è ancora un tema caldo correlato alla perdita di lavoro per tante persone. In questo caso è dichiarato che per ogni “catena di montaggio” c’è una persona davanti al computer che controlla, coordina, gestisce.
Comunque sia, tutto questo rende efficiente la catena produttiva e determina il successo che contraddistingue L’Orél da più di 110 anni.

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Stop al glitter in Europa: dal 15 ottobre sarà vietata la vendita.

By : Aldo |Ottobre 12, 2023 |Arte sostenibile, bastaplastica, Home, plasticfree |Commenti disabilitati su Stop al glitter in Europa: dal 15 ottobre sarà vietata la vendita.

Le microplastiche sono purtoppo ovunque, in grandi quantità e recano sempre più danni al pianeta, quindi è necessario limitarne la dispersione. Negli ultimi anni sono passate leggi molto specifiche per quanto riguarda la plastica ed ora ne arrivano di nuove.

   

Il glitter

Tutti o gran parte della popolazione mondiale ne ha fatto uso almeno una volta. Con il termine “glitter” si indica un vasto assortimento di piccolissimi frammenti delle dimensioni massime di 1 mm². Sono costituiti principalmente di copolimeri quasi impercettibili di lamine di alluminio, diossido di titanio, ossido di ferro, ossicloruro di bismuto e altri ossidi o metalli.  Questi minuscoli frammenti sono poi dipinti con colori iridescenti che riflettono la luce nello spettro visibile: da qui la magia dei brillantini.

    

Il periodo della sua creazione non è certo e varia tra il 1934 e il secondo dopo guerra. Non ci sono dubi invece sulla sua funzione: far brillare o rendere sfarzoso un oggetto o la propria pelle (per mezzo di cosmetici).  Nonostante ciò abbia contribuito a far “brillare” il pianeta, il glitter, come ogni altro tipo di microplastica è pericoloso per gli ecosistemi e per l’uomo.

    

I danni recati all’ambiente

Le microplastiche (categoria che include il glitter) sono arrivate ovunque. È di qualche mese fa la notizia che sono state ritrovate loro tracce anche nella placenta umana.  Inoltre, uno studio sulla rivista Aquatic Toxicology conferma la presenza di ben 8 milioni di tonnellate di glitter e altre microplastiche simili negli oceani. Una cifra assurda, che va oltre qualsiasi aspettativa e che va ridotta il prima possibile.

  

L’Unione Europea ha deciso dunque di bloccare il commercio di glitter sfuso e/o incluso in altri prodotti, per limitarne sempre più la dispersione in acqua e quindi nel mare.

   

Vietato il glitter dal 15 ottobre

Pertanto, dal 15 ottobre la UE vieta il glitter contro l’inquinamento da microplastiche. Questo significa che da domenica non si potranno più commercializzare prodotti con glitter come biglietti di auguri e creme per il trucco.  La restrizione riguarda tutte le microplastiche aggiunte intenzionalmente ai prodotti e che contengono sostanze chimiche pericolose per la natura. Elementi che si trovano anche in oggetti di vario tipo e impiego, o usati per l’edilizia, soprattutto di superfici sportive artificiali.

    

Con tale legge, si prova a limitare la dispersione in ambiente delle microplastiche di almeno il 30% entro il 2030. Tale settore determina un giro economico del valore di quasi 1 miliardo di euro all’anno, ma che ha un impatto molto pericoloso per tutto e tutti. Si pensi che solo in Europa si stima che ogni anno vengano rilasciate 42 mila tonnellate di microplastiche aggiunte intenzionalmente ai prodotti.

 

Il divieto è fondato su un’attenta analisi della consulenza scientifica dell’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA). Quest’ultima ha consigliato il divieto di polimeri sintetici inferiori a 5 mm che resistono alla degradazione, tra cui appunto il glitter e poi:

  • specifici prodotti per le unghie,
  • una serie di cosmetici “leave-on” come fondotinta, eyeliner, mascara, rossetti e smalti (di cui sarà rivisitata la composizione).
  • microsfere per l’esfoliazione,
  • componenti di detersivi, ammorbidenti,
  • fertilizzanti
  • materiale granulare usato per le superfici sportive.

Tuttavia, restano esclusi alcuni prodotti che contengono microplastiche ma non le rilasciano in natura, come materiali da costruzione e prodotti oggi utilizzati in siti industriali. Ovviamente anche per loro sono arrivate delle raccomandazioni, indicando la necessità che le industrie trovino delle alternative “green”.

 

L’effetto indesiderato

La legge che entrerà in vigore da domenica 15 ottobre ha spaventato chi dei glitter ha fatto una scelta di vita. Soprattutto in Germania si è verificato un processo inverso, ovvero un boom di vendite dei prodotti “brillanti”. Addirittura, si parla di “isteria da glitter”. Nel quotidiano Bild si racconta come alcuni VIP tedeschi stiano correndo per accaparrarsi più glitter possibile prima che non sia più reperibile sul mercato.

  

Comunque sia, questo passaggio è parte di un disegno più ampio che mira a diminuire la continua diffusione di prodotti polimerici in natura. È un programma parallelo allo sviluppo in corso per un Trattato globale sulla plastica.

Di certo non sarà facile vietare prodotti di ampio consumo ordinario, ma è un passo che va fatto per proteggere il pianeta e noi stessi.

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Smartphone e tablet: quale valore hanno una volta arrivati a fine vita?

By : Aldo |Ottobre 10, 2023 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti |Commenti disabilitati su Smartphone e tablet: quale valore hanno una volta arrivati a fine vita?

Il riciclo ci permette di ridurre il numero di rifiuti nelle discariche e di emissioni di CO2 nell’atmosfera. Oggi è un processo ancora più rilevante per l’ambiente e la sostenibilità, ma, nonostante ciò, non è ancora ben sviluppato in tutti i settori. Quello dei dispositivi elettronici sembra essere in difficoltà.
   

Smartphone e tablet

I dispositivi elettronici “smart” sono nelle nostre vite da un decennio e hanno rivoluzionato totalmente la quotidianità di tutti. Dove con l’aggettivo “smart” si intende con capacità di calcolo, memoria e connessione per l’impiego di funzioni avanzate tramite app e navigazione Internet.

  

Nell’arco di soli 8 anni, i numeri relativi agli smartphone sono duplicati: oggi se ne contano 6,8 miliardi, mentre nel 2016 erano “solo” 3,6 miliardi. Tuttavia, in generale, i telefoni mobili (“smart” e non) utilizzati oggi nel mondo sono 7,3 miliardi.  A questi numeri sarebbe opportuno aggiungere oltre 500 milioni di cosiddetti “feature phones”. Si tratta di telefoni cellulari di base, privi di sistemi operativi complessi che possono essere utilizzati semplicemente per l’utilizzo delle applicazioni.

  

Per quanto riguarda l’Italia, il 77% delle persone possiede un telefono e le stime sulle loro spese creano un ampio quadro dell’economia tecnologica.  Infatti, secondo il V Rapporto Censis-Auditel, nel 2021 nella Penisola sono stati pagati più di 7,8 miliardi di euro per l’acquisto di telefoni e apparecchiature telefoniche. Una spesa che rispetto al 2017 è aumentata del 92%: si tratta dell’incremento più elevato registrato in assoluto per le varie voci di spesa.

Tali cifre rendono l’idea sull’ importanza di questi dispositivi, che tuttavia, una volta obsoleti diventano oggetti e reperti storici nei nostri cassetti.

   
Il valore di uno smartphone

Attualmente abbiamo consorzi di riciclo per molteplici tipi di rifiuti come plastica, carta, vetro, alluminio. Questi sono molto sviluppati poiché correlati ad una grande quantità di prodotti che utilizziamo quotidianamente, creando un’importante mole di rifiuti. Proprio per questa ragione e viste le cifre riportate precedentemente, sarebbe opportuno promuovere maggiormente le procedure di riciclo e riuso degli smartphone. Poiché una volta esausti, non vengono valorizzati, come anche tablet e altri dispositivi elettronici.

  

Quello che non tutti sanno però è che quegli oggetti hanno elevato valore, soprattutto se introdotti in una realtà di economia circolare. Tale caratteristica deriva dagli elementi di cui sono composti, ossia materie prime critiche (o terre rare) come cobalto nella batteria, indio nello schermo. O ancora tantalio, gallio e metalli preziosi nel circuito stampato; sono tutti materiali che se recuperati possono essere impiegati nuovamente in altri prodotti. In questo modo si riducono i costi e le emissioni di produzione e si evita la continua estrazione mineraria. Per questo è fondamentale incentivare la riparazione e il riutilizzo di piccoli dispositivi elettronici, nonché il riciclo quando arrivano a fine vita.

   

Riciclo e Riuso

Attualmente gli europei potrebbero restituire smartphone usati per 700 milioni di pezzi, che oggi sono chiusi in un cassetto. Non a caso la Commissione Europa ha deciso di adottare una serie di raccomandazioni politiche per migliorare e incentivare la restituzione dei dispositivi. Tra loro sono inclusi telefoni cellulari, tablet, laptop usati e i relativi caricabatterie.

  

Il vademecum mira a supportare le autorità nazionali nel massimizzare riutilizzo, riparazione e recupero di questi piccoli dispositivi elettronici. Anche perché oggi il tasso di raccolta dei telefoni cellulari è oggi inferiore al 5% in Europa. Tra le raccomandazioni, Bruxelles chiede ai paesi membri di mettere proporre incentivi finanziari come sconti, buoni, sistemi di restituzione o premi monetari. In questo modo i cittadini europei sarebbero spinti a restituire i loro dispositivi usati alimentando un ciclo “green”. Senz’altro è necessario aumentare l’uso dei servizi postali per la restituzione e promuovere partnership. Per esempio, potrebbero collaborare i consorzi che si occupano della raccolta dei rifiuti e le realtà che preparano i dispositivi elettronici per il riuso.

   

Tutti questi consigli si concretizzano con la nascita di realtà in questo settore o con una maggiore sensibilizzazione sul tema. Dunque, ecco cosa possiamo fare con un dispositivo elettronico esausto:

  • venderlo su siti specializzati o negozi reali per prodotti elettronici di seconda mano;
  • convertirlo in una sveglia, un telecomando, una telecamera di sorveglianza, una cornice digitale e un localizzatore;
  • portarlo nei negozi di elettronica, che sono obbligati a ritirare i vecchi apparecchi;
  • rottamarlo per ricevere in cambio denaro, buoni regalo o altro;
  • donarlo durante le iniziative di beneficenza che vedono protagonisti i cellulari

Coem vediamo un telefono può avere mille funzionalità diverse, l’importante è che non venga buttato nel cestino.  Se propri vogliamo disfarci di tali prodotti è meglio portarli in un’isola ecologica che tratta i materiali RAEE (Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche). Altrimenti, se non conferiti negli appositi impianti di trattamento, diventano un pericolo per l’ambiente a causa dei veleni tossici che liberano.

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Il rapporto del primo Global Stocktake: cosa si richiederà alla COP28?

By : Aldo |Ottobre 09, 2023 |Efficienza energetica, Emissioni, Home, i nostri figli andranno ad energia solare |Commenti disabilitati su Il rapporto del primo Global Stocktake: cosa si richiederà alla COP28?

Tanti paesi si sono mossi per migliorare il proprio impatto sul pianeta; eppure, c’è ancora molto da fare in questo senso. Sicuramente le varie riunioni, le assemblee globali aiutano tale cambiamento, tuttavia servono linee più rigide e molti più finanziamenti.

 

Global Stocktake

Prima di parlare della situazione in cui ci troviamo e delle linee guida proposte dall’assemblea, è necessario spiegare l’entità e la rilevanza del Global Stocktake. Si tratta di un bilancio globale, un processo per i paesi e le parti interessate (alla COP) per capire quali progressi collettivi sono in atto. Dunque, è un incontro che serve a determinare se gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico, sono in fase di realizzazione o meno.

   

Considera tutto quello che riguarda la posizione del mondo sull’azione e il sostegno per il clima, per poi identificare le lacune e colmarle. Così facendo si traccia un percorso migliore per accelerare l’azione richiesta dall’assemblea e globalmente necessaria. Questo bilancio si svolge ogni cinque anni e il primo terminerà con la COP28 che si terrà dal 30 novembre a 12 dicembre a Dubai. È fondamentale ricordare che non è solo un controllo di routine, ma un un’opportunità per aumentare l’ambizione per evitare le peggiori conseguenze del cambiamento climatico. Non è quindi la soluzione agli attuali problemi, ma la base di una risposta che faccia la differenza.

   

Secondo Stiell, nuovo segretario esecutivo dell’Unfccc, il risultato ideale di tale bilancio sarebbe una tabella di marcia. In essa dovrebbero essere inclusi dei “percorsi di soluzioni” che guidino le azioni immediate, divise per settori, regioni, attori. Il tutto per raggiungere gli obiettivi previsti entro i prossimi 7 anni.

   

Rapporto di sintesi

Per poter arrivare alla COP28 con le idee chiare, è stato creato un rapporto di sintesi. Quest’ultimo presenta una serie di misure utili a restare sotto gli 1,5°C e sarà la base dei negoziati del prossimo incontro. Il documento di 45 pagine, presenta i 17 risultati principali, i quali ci informano che non siamo sulla buona strada per raggiungere gli obiettivi prefissati.

 

Attualmente siamo molto distanti dalla traiettoria giusta per rispettare la soglia di 1,5 gradi, forse l’obiettivo più ambizioso del Paris Agreement. Le analisi svolte sulla base dell’impatto collettivo di tutte le misure annunciate dagli stati nei loro Contributi Nazionali Volontari, non mostra una realtà positiva. Infatti, il calcolo afferma che nel 2100 potremmo arrivare a un aumento della temperatura di 1,7°C rispetto all’epoca pre-industriale. Tuttavia, se si considerano solo le politiche già introdotte, la traiettoria oscilla tra +2,1 e +2,9°C. Proprio per rimediare a tale situazione, il primo Global Stocktake parte dai seguenti numeri:

  • – 43% di gas serra entro il 2030,
  • – 60% entro il 2035,
  • – 84% entro il 2050, rispetto ai volumi emissivi del 2019.

Le azioni e i punti di discussione

Il rapporto tecnico (presentato dall’UNFCCC), presenta ed evidenzia le molteplici problematiche da risolvere, a seguito di vari colloqui con i Paesi partecipanti alla COP28. Di conseguenza il team di scienziati prescelto ha valutato tutte le possibili mosse per risolvere queste tematiche di interesse globale. Nella discussione ritroviamo punti e temi che sembrano non sparire mai ed altri nuovi o aggiornati (a seconda del progresso attuato in questi anni).

 

Tra questi è sempre presente e rilevante la questione dei combustibili fossili. In questo caso si chiede fermamente l’eliminazione graduale di tutte le fonti e le emissioni fossili e l’adozione di una guida per consentire tale transizione. Inoltre, si suggerisce di “accelerare l’eliminazione progressiva dei combustibili fossili unabated” (punto stabilito Cop26 di Glasgow). Per un’azione congiunta e di successo è consigliata l’eliminazione dei sussidi inefficaci ai carburanti di questo tipo nel 2025. Infine, si richiede lo stop alle esplorazioni di nuovi giacimenti fossili entro questo decennio.

   

Sul piano dei finanziamenti invece, si spinge per destinare almeno 200-400 mld $ entro il 2030 al fondo “Loss and damage”. Tale richiesta è fondamentale per garantire un equo ammontare di aiuti ai paesi vulnerabili più colpiti dalla crisi climatica. Poi ancora ci sono molteplici punti, già discussi negli anni precedenti, per i quali si richiede un maggior rigore, come nel caso del settore energetico. In tal senso si vuole fissare l’obiettivo globale di triplicare la capacità installata di rinnovabili entro il 2030 e quello di raddoppiare l’efficienza energetica.
  

È importante però ricordare che ogni punto, ogni questione va esaminata sempre tenendo conto delle differenze sociali ed economiche dei singoli paesi.

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Dal sughero alla pelle vegana: il progetto della startup Lebiu.

By : Aldo |Ottobre 03, 2023 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti |Commenti disabilitati su Dal sughero alla pelle vegana: il progetto della startup Lebiu.

Il settore tessile ha bisogno di una grande innovazione legata alla sostenibilità. Negli ultimi anni sono state sviluppate le idee più disparate per poter rendere più “verde” il settore tessile, uno dei più inquinanti al mondo.  Ecco una novità.

 

Lebiu

La startup Lebiu nasce come una realtà sarda fondata da Fabio Molinas e Alessandro Sestini. I due soci derivano da settori diversi: il primo ha studiato industrial design e poi ha fatto esperienza in accademia in Spagna dove ha vissuto 11 anni. Il secondo invece è più specializzato nell’ambito finanziario e commerciale.

  

Insieme, oltre a fondare una startup, hanno creato un nuovo tessuto composto di scarti, ma non si tratta né di plastica, né di frutta. I due hanno pensato di usare gli sfridi di sughero per rivoluzionare il campo della moda. Borse, abbigliamento e accessori, sono composti da un nuovo materiale, derivato da scarti naturali e abbinato a elementi plant-based. Questa è la descrizione dei prodotti Lebiu.

 

Il sughero nel tessile

L’idea iniziale deriva dai ricordi d’infanzia di Molinas, originario di Caragianus in Gallura, il maggiore centro di produzione di tappi di sughero dell’isola.  In quelle terre la maggior parte delle famiglie ha lavorato nell’industria del sughero, quindi il materiale, ha determinato gran parte dell’infanzia del founder, il quale racconta:

ci sono cresciuto e fin da bambino ho sempre giocato con gli sfridi, la polvere generata da questa attività”

Nelle industrie, tonnellate di materiale di scarto viene incenerito poiché solo una piccola parte viene usata per la colmatazione dei tappi più pregiati. Pertanto, dopo 11 anni in Spagna, l’expat è tornano in Italia con un’importante formazione alle spalle, un’idea innovativa e la voglia di cambiare il mondo.

 

Il progetto e il materiale.

Il progetto nasce dalle conoscenze legate ai ricordi d’infanzia di Molinas e quelle riguardanti il settore tessile.  Infatti, afferma che gli sfridi sono in realtà una vera e propria farina che spesso veniva legata con la colla. Da qui si lavorava fino a renderla una sorta di plastilina da modellare dopo un passaggio in forno. Quindi l’idea c’era, il materiale pure e in abbondanza, mancava solo la realizzazione del nuovo prodotto che necessitava di fondi. A questo ci pensò la Commissione Europea che riconobbe un programma di incentivi dedicato alle industrie creative capaci di ridurre l’impatto ambientale dell’industria tessile.

 

Corskin

Il prodotto su cui converge tutto: una specie di simil pelle (al tocco) costituita da un alto contenuto di particelle di sughero. Queste ultime sono accompagnate da resine plant-based provenienti da coltivazioni OGM-Free e da campi non sottratti all’agricoltura per l’alimentazione. Si tratta di un tessuto resistente alla corrosione, impermeabile e personalizzabile con varie texture e finissaggi. In aggiunta, impedisce la formazione di muffe, per mezzo delle cere e dei tannini presenti nella biomassa, è durevole, non scolorisce ed è elastico. Infine, l’aumento dello spessore non incide sul suo peso, come invece avviene con altri materiali tecnici o naturali. L’unica pecca riguarda la lavorazione che attualmente elimina ogni profumo e odore ma la squadra è già alla ricerca di una soluzione.

Tale materiale nasce dalla combinazione di collanti alimentari che si impiegano per quelli conglomerati. Successivamente, grazie alla collaborazione con imprese specializzate in spalmati sintetici e tessili del nord Italia, la startup ha raggiunto il suo obiettivo, una struttura multistrato. Senza dubbio, Corskin è una valida alternativa che riduce l’impatto ambientale.

   

Nanocork

Attualmente è una linea secondaria dell’impresa. È un finissaggio naturale applicabile sui capi di aziende terze grazie a un processo di micronizzazione delle particelle di sughero e acqua. Questo materiale consente di risparmiare fino al 90% di acqua, prodotti chimici, ed energia e di distinguere il tessuto dagli altri. Per esempio, aumenta le prestazioni del capo in termini di isolamento termico e antistaticità ed ha un effetto naturalmente invecchiato. Quest’ultima caratteristica deriva dall’uso un pigmento naturale abbinato a sfridi, acqua e altri componenti, nebulizzato in ambiente controllato su tessuti.

Tali processi sono molto più sostenibili poiché generalmente la tintura di una maglietta comporta l’utilizzo di grandi quantità d’acqua: dai 60 ai 100 litri. Mentre con Nanocork per ogni chilo di vestiti ne basta solo un litro e mezzo.

   

Lebiu ha quindi creato dei prodotti che hanno un impatto ambientale è molto ridotto. Anche perchè si basa su una filiera di produzione controllata con certificazioni GRS (Global Recycled Standard) e USDA per il contenuto Bio-based. Valore che può variare a seconda dei prodotti, da un 45% a un 80%, con l’obiettivo di raggiungere il 95%. Con tali procedimenti e secondo le stime della società, per ogni metro di Corskin si evita l’immissione di 4,5 kg di CO2 in atmosfera.

  

Il prezzo è in linea con i tessuti di fascia medio-alta ma anche per la fascia premium degli alberghi e per l’arredamento.
Dunque, Lebiu è una realtà che ha fatto di una polvere di scarto, un tessuto di alto valore ma di basso impatto ambientale. Le vie per migliorare la nostra impronta sul pianeta sono migliaia, basta solo percorrerle nel modo e con i tempi più adeguati.

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Rendere verdi i deserti catturando la CO2: ecco il nuovo studio.

By : Aldo |Ottobre 02, 2023 |Efficienza energetica, Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Rendere verdi i deserti catturando la CO2: ecco il nuovo studio.

La CO2 nelle vare sfere della Terra è presente in quantità elevate che bisogna ridurre. Gli studi in questo verso continuano: le idee sono tante e varie ma è necessario poterle mettere in pratica. Ecco un esempio.

    

La situazione odierna

Le emissioni nette di CO2 devono essere ridotte a zero entro 10 anni per raggiungere la neutralità climatica. Tale processo al momento sembra impossibile, soprattutto per le migliaia di attività che si sviluppano quotidianamente e che emettono CO2. Tuttavia, gli effetti climatici correlati all’elevata concentrazione di CO2 atmosferica rimarranno irreversibili per almeno 1000 anni.

   

Gli studi, le innovazioni e i progetti per ridurre le emissioni sono tantissimi, vari e di origine diversa. Per esempio, si possono migliorare o rinnovare i processi produttivi di molteplici oggetti. Si può riciclare una grande quantità di rifiuti oppure ridurre ed eliminare la produzione e il consumo di certi materiali.  O ancora sono stati ideati svariati sistemi per catturare la CO2, sia naturali che artificiali con l’obiettivo di poter ridurre la sua concentrazione nelle varie sfere.   In questo caso, lo studio parla delle terre aride dei deserti come possibili centri di stock dell’anidride carbonica nel futuro.
    

L’idea della ricerca

L’idea nasce da uno specifico studio dei deserti e delle poche e particolari piante che li abitano. E chi poteva parlarne meglio di un gruppo di scienziati della King Abdullah University of Science and Technology (Arabia Saudita)? Il team guidato da Heribert Hirt, professore di scienze vegetali e membro del Centre for Desert Agriculture è pronto a mettere in pratica la loro ricerca.

  

Il concetto è quello di sfruttare la capacità delle piante di sequestrare il carbonio dall’atmosfera attraverso il processo di fotosintesi.  Nello specifico la ricerca si è concentrata sui deserti, in modo da non sottrarre terreno al settore agricolo (una procedura fin troppo sviluppata e dannosa). Non a caso un terzo della superficie terrestre del nostro pianeta è terra arida che non viene utilizzata per l’agricoltura ed è soggetta. In tal modo potremmo catturare la CO2, rendendo “verdi” i deserti. Lo studio e i suoi dati sono stati appena pubblicati nella forma di opinion paper sulla rivista scientifica Trends in Plant Sciences. 

  

Rendere verdi i deserti

Dunque, gli autori hanno pensato di non usare le aree verdi già presenti ma di creare delle piccole isole nel deserto, incrementando dei processi naturali.

Per sviluppare l’esperimento, gli scienziati hanno scelto un tipo di pianta capace di sopravvivere a condizioni di temperatura elevata e di carenza idrica. Standard tipici delle aree desertiche, ai quali sopravvivono le piante “ossalogeniche”. Quest’ultime sono in grado di immagazzinare il carbonio che sequestrano dalla CO2 atmosferica sotto forma di cristalli di ossalato di calcio. Si tratta di un sale costituito da calcio, carbonio e ossigeno, che in caso di necessità può essere riconvertito in acqua e CO2.

Tali piante sono state affiancate da microrganismi che accelerano questo processo. Grazie alla loro azione, parte dei cristalli di ossalato (prodotti dalla pianta) vengono convertiti in carbonato di calcio. Questo sale è la principale forma di immagazzinamento di carbonio all’interno del suolo, quindi la soluzione perfetta per la rimozione di CO2 dall’atmosfera.  Una procedura tipica delle zone aride, dove il pH del terreno e le elevate concentrazioni di calcio sono ottimali per la formazione dei carbonati. Si tratta di un processo di trasformazione che avviene anche negli strati profondi del terreno, meno soggetti a cambiamenti di:

  • temperatura dell’aria;
  • concentrazione atmosferica di CO2;
  • l’utilizzo del suolo per scopi antropici.

Il sistema di immagazzinamento determina la formazione di enormi depositi di carbonato di calcio nel terreno che rimangono stabili anche per centinaia di anni. Ed è proprio questo il ciclo che ha interessato i ricercatori. Perchè così facendo, si può fissare stabilmente il carbonio contenuto nella CO2, riducendone ampiamente la sua concentrazione atmosferica.

Questo è l’obiettivo dello studio: tagliare la quantità di CO2 attualmente presente nell’atmosfera in tempi relativamente brevi, potenzialmente anche in meno di dieci anni.

    

La prova

Attualmente gli autori suggeriscono di partire da quelle che loro definiscono “piccole isole fertili”. Ossia scegliere piccole aree nelle quali far crescere le piante ossalogeniche, che nel futuro potrebbero espandersi autonomamente a formare dei grandi “tappeti verdi” nel deserto. Ovviamente l’efficienza del progetto e i suoi risultati dipenderanno anche delle strategie politiche adottate e dei fondi investiti in questo senso.

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“Pulci d’acqua” per migliorare per la depurazione delle acque reflue.

By : Aldo |Settembre 28, 2023 |Arte sostenibile, Emissioni, Home, mare |Commenti disabilitati su “Pulci d’acqua” per migliorare per la depurazione delle acque reflue.

Il nostro pianeta gode di un’immensa biodiversità di specie animali e vegetali, con caratteristiche pazzesce spesso straordinarie.

E proprio grazie a tali qualità e alla ricerca, queste specie possono venire in nostro soccorso in molteplici ambiti e in varie modalità.ù

    

La depurazione delle acque reflue

Il processo di depurazione delle acque reflue è un’operazione complessa ma necessaria, per la salute di ogni popolazione e del territorio. É un’attività che si sviluppa per mezzo di una combinazione di trattamenti meccanici, chimici e biologici con l’obiettivo di rimuovere gli inquinanti dall’ acqua di scarico. In tal modo è possibile renderla abbastanza pulita da poter essere rilasciata nel suolo o nei corpi idrici senza danneggiare l’ambiente.

   

In Italia, La depurazione delle acque reflue come la intendiamo oggi si è diffusa dagli anni ’70. In quel periodo venne affrontato con particolare attenzione il tema e venne istituita la legge Merli (legge 319 del 1976). Quest’ultima, fu una mossa fondamentale, poiché vennero stabilite le concentrazioni limite dei parametri delle acque di scarico.

   

Solitamente distinguiamo due fondamentali tipologie di acque di scarico: gli scarichi civili e gli scarichi industriali. I primi, detti anche acque reflue urbane comprendono le acque di rifiuto domestico e le acque di ruscellamento, ossia l’acqua che finisce nei tombini stradali. Mentre i reflui industriali includono acque di scarto e la tipologia di inquinanti presenti varia a seconda del processo industriale utilizzato. Non a caso alcune attività (lavanderie industriali, cantine vinicole, industrie chimiche) sono obbligate trattare preventivamente le loro acque reflue.

    

La novità

È chiaro che il depuratore sia un importante mezzo per la salubrità di ogni cittadina. Tuttavia, per la sua funzione occupa ancora tanto spazio e in alcuni casi, se poco efficiente, potrebbe non filtrare alla perfezione. Pertanto, come qualsiasi tecnologia, sono ancora in corso degli studi per migliorare e rendere sempre più efficienti questi sistemi fondamentali.

Tra i vari casi, oggi si parla di una depurazione delle acque reflue, più specifica grazie all’introduzione di “pulci d’acqua”. Si parla dell’esperimento dell’Università di Birmingham, svolto da una squadra che ha dimostrato impressionanti capacità di depurazione delle acque reflue.

L’esito positivo dell’esperimento fa pensare che possano essere impiegate in tanti ambiti o semplicemente, possano essere introdotte in più depuratori. Si tratta di una soluzione più che ecologica, visto che per la loro attività non verrà consumata energia in più e non ci saranno ulteriori emissioni.

    

Le “pulci d’acqua”

Non si tratta pulci, ma di un gruppo di oltre 450 specie di minuscoli crostacei che vivono dentro laghi, stagni, ruscelli e fiumi. Gli individui del genere Daphnia sono organismi che filtrano il cibo, ingerendo eventuali piccole particelle di detriti, alghe o batteri nel processo. Vista la loro propensione a filtrare di tutto, sono stati selezionati per l’esame. Gli studiosi hanno pensato che probabilmente avrebbero potuto ingerire anche qualcosa di peggio, come sostanze chimiche tossiche.

  

L’introduzione di questa specie nel processo di trattamento deriva dalla problematica per la quale gli impianti di trattamento non siano così efficienti. Tali sistemi oggi non rimuovono tutti i contaminanti, anzi molti sfuggono ai filtri dei depuratori, e tornano nell’ambiente, danneggiando noi e la natura.

   

Così sono stati selezionati embrioni dormienti recuperati sul fondo dei fiumi: nello specifico ceppi dal 1900, 1960, 1980 e 2015.  Arrivati in laboratorio, hanno cresciuto le popolazioni di pulci clonando e testato il loro patrimonio genetico e le loro capacità di sopravvivenza. Successivamente hanno testato le capacità di aspirazione, prima in acquario, poi in 100 litri d’acqua, poi in un impianto da oltre 2.000 litri. I risultati strabilianti hanno portato alla scoperta di caratteristiche specifiche della specie.

   

I risultati

Gli inquinanti presenti nelle acque, che preoccupano maggiormente gli operatori sanitari sono

  • Diclofenac, farmaco;
  • Atrazina, pesticida;
  • Arsenico, metallo pesante;
  • PFOS, prodotto chimico industriale, impermeabilizzare i vestiti.

Ricordiamo che alcuni embrioni scelti, si erano depositati in periodi in cui le sostanze inquinanti erano più diffuse. Mentre altri erano più “ingenui”, poiché originarie di periodi in cui i contaminanti erano assenti (come nel 1900).

Quindi erano possibili vari esiti, ma hanno prevalso quelli positivi, al punto che Karl Dearn co-autore dello studio afferma:

 

Abbiamo sviluppato il nostro bioequivalente di un aspirapolvere Dyson per le acque reflue, che è molto, molto emozionante”

Infatti le pulci d’acqua sono state in grado di assorbire il 90% del diclofenac, il 60% dell’arsenico, il 59% dell’atrazina e il 50% del PFOS. L’ultima percentuale, per quanto fosse la minore rispetto alle altre, determina una scoperta rilevante e una specifica caratteristica della specie. Luisa Orsini co-autrice dello studio dichiara che tale rimozione è eccellente rispetto a ciò che esiste ora. Questo perchè perché nulla rimuove o metabolizza i PFOS in questo modo, e altri sistemi sono estremamente costosi, e producono molti sottoprodotti tossici.

 

La nuova tecnica è efficiente anche perchè le pulci sono autosufficienti (si riproducono per clonazione) e si autoregolano. Ossia aumentano o riducono la popolazione a seconda dei nutrienti disponibili. Inoltre, data la loro adattabilità, le pulci potrebbero essere impiegate in tanti altri tipi di sistema. Senza contare il fatto che si tratta di un agente economico e privo di emissioni di carbonio, potrebbe trattarsi di una soluzione sofisticata.  O comunque potrebbe essere usata per impianti di trattamento delle acque e nei paesi in via di sviluppo con meno infrastrutture

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Arriva il Cinema In Verde all’Orto Botanico di Roma.

By : Aldo |Settembre 26, 2023 |Arte sostenibile, Clima, Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Arriva il Cinema In Verde all’Orto Botanico di Roma.

Temi come la cura dell’ambiente, la sostenibilità e la sensibilizzazione dei cittadini sono sempre più citati e intrapresi in vari ambiti.
Sicuramente se ne parla a scuola, in politica, sul web ed ora anche in una rassegna cinematografica.

   

Cinema In Verde

A fine settembre si svolgerà il primo festival di cinema ambientale a Roma. Un’occasione unica per raccontare la difesa dell’ambiente e della natura attraverso film e tante altre attività ad essi correlate. Il principio è proprio quello di far aprire gli occhi con storie di inchiesta, di presa di coscienza, di ecosistemi che resistono.

   

L’iniziativa avrà luogo, in posto magico quale l’Orto Botanico di Roma, (Polo Museale della Sapienza) culla di biodiversità, istruzione e sensibilizzazione. La prima Università di Roma e Silverback (agenzia di comunicazione green) si affiancheranno in questa nuova avventura all’insegna del cinema “verde”.

   

L’evento che avrà inizio venerdì 28 settembre e terminerà domenica 1° ottobre, sarà promosso dall’Assessorato all’agricoltura, all’ambiente e al ciclo dei rifiuti. Mentre sarà patrocinato dall’Assessorato alla Cultura e dal Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica. Il Cinema In Verde è organizzato in collaborazione con FilmAffair, Zen2030 e Green Influencer Club, food partner Punto Mobile.

    

La sensibilizzazione

L’evento è stato definito “carbon neutral” grazie al lavoro svolto dalla società benefit Zen2030. Infatti, durante il festival, i consumi di molteplici ambiti saranno monitorati, registrati e tradotti in emissioni di CO₂eq. Si parla di consumi legati alle categorie energia, mobilità, trasporti, ristorazione, materiali, alloggi e rifiuti.

   

Oltre al monitoraggio e alla rendicontazione saranno attuate altre forme di compensazione e attenzione nei confronti dell’ambiente:

  • l’energia usata deriverà dalla rete elettrica dell’Orto Botanico che proviene da fonti rinnovabili;
  • verrà incentivato l’uso di mezzi sostenibili per l’arrivo al festival (mezzi pubblici, bicicletta, mobilità elettrica e condivisa). E per i partecipanti internazionali è stato consigliato il treno piuttosto che l’aereo;
  • é stata adottata una politica plastic free preferendo materiali a consumo a minor impatto ambientale. Molti materiali sono stati noleggiati e sono stati scelti fornitori locali, provenienti da Roma e dal Lazio;
  • l’offerta di ristoro è prevalentemente vegetariana, con coperti lavabili o totalmente compostabili;
  • a chiusura dell’evento le emissioni residue, ovvero quelle che non sarà stato possibile evitare, saranno compensate attraverso progetti certificati legati alla transizione energetica verso fonti rinnovabili.

Il festival

Per quanto riguarda la rassegna cinematografica, si prevede la proiezione di sei pellicole d’autore, all’interno di un’arena interna e una esterna. Tali film sono destinati a un pubblico vasto ed hanno come trama principale una storia godibile e interessante con un significato ambientale. Tuttavia, l’evento non consisterà nella sola visione di film, ma anche allo sviluppo di varie attività connesse ai due temi in esame.

   

Pertanto, è prevista una rassegna di film già usciti in sala che hanno risvegliato la nostra attenzione sui temi ambientali. Successivamente si affronteranno dibattiti a cui parteciperanno personaggi dello spettacolo come Paolo Virzì, Claudia Gerini, Andrea Pennacchi e della ricerca.

     

I sei film in concorso sono:

  • GREEN TIDE, di Pierre Jolivet;
  • THE DAM, di Ali Cherri;
  • THE HORIZON, di Emilie Carpentier;
  • AND THE BIRDS RAINED DOWN, di Louise Archambault;
  • PLUTO, di Renzo Carbonera;
  • BEATING SUN, di Philippe Petit.

La giuria sarà composta da

  • Laura Delli Colli, giornalista e scrittrice;
  • Thony, attrice e cantautrice;
  • Andrea Grieco, divulgatore e attivista;
  • Rossella Muroni, Nuove Ri-Generazioni;
  • Claudia Campanelli, giornalista e autrice;

Inoltre, sono stati organizzati workshop ogni mattina per capire come si pensa e si realizza un documentario ambientale. E come alla fine di ogni festival o concorso che si rispetti, il vincitore riceverà il primo premio Ginkgo d’oro. L’iniziativa consente così di veicolare dei messaggi fondamentali, di dare varie e nuovi spunti di riflessione sul tema e incrementare la sensibilizzazione. Non a caso, la citazione del regista Ingmar Bergman, scelta per questa iniziativa racchiude tutta l’anima del festival:

  

Non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza, scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’anima”

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Vittoria storica per gli indigeni del Brasile: “No al Marco Temporal”.

By : Aldo |Settembre 25, 2023 |Emissioni, Home, i nostri figli andranno ad energia solare |Commenti disabilitati su Vittoria storica per gli indigeni del Brasile: “No al Marco Temporal”.

Gli indigeni nel mondo combattono da anni per vedere i propri diritti rappresentati o rispettati, andando contro i governi di molteplici nazioni.

In Amazzonia, negli ultimi anni si sono battute tantissime popolazioni che, fortunatamente, sono riuscite a cambiare il corso della storia.

    

Il Marco Temporal

Il Marco Temporal (o Limite Temporale) è una proposta di legge che avrebbe favorito (secondo le popolazioni indigene) un “genocidio legalizzato”. Si tratta di un disegno che puntava tutto sulla promozione della sostenibilità occidentale per sfruttare le terre dell’Amazzonia e le sue risorse. Il tutto senza rispettare i diritti e in generale le popolazioni indigene che senza dubbio sarebbero state sterminate.

   

L’interesse era legato a materie come il “litio verde”, le terre rare, l’oro, il petrolio, il legno, la soia e la carne. L’estrazione o la produzione di queste materie danneggia da anni le riserve indigene e la legge avrebbe solamente accelerato tale devastazione. In più la legge avrebbe la cancellato le richieste in sospeso, per il riconoscimento delle riserve e autorizzato l’accesso deliberato alla foresta. E per non farsi mancare nulla avrebbe limitato il potere del Ministero dei Popoli Indigeni e del Ministero dell’Ambiente. Così facendo avrebbe messo in pericolo risorse fondamentali come l’acqua e le foreste e la vita stessa delle popolazioni indigene.

   

Pertanto una legge simile non avrebbe rispettato punti fondamentali della costituzione a favore del business, mettendo in pericolo migliaia di persone.

    

La lotta degli indigeni

Le comunità indigene, i popoli che abitano l’amazzonia si sono ribellati sin da subito a quest disegno di legge. Le novità previste da quest’ultima non erano altro che modi con cui la nazione avrebbe potuto fare quello che più le interessava con il polmone verde. Mettendo così in pericolo intere popolazioni, molte delle quali non hanno quasi alcun contatto con il mondo esterno. Potremmo dire che contrastare la sua approvazione era letteralmente questione di vita o di morte per gli abitanti della foresta.

   

La legge introduceva dei vincoli che determinavano l’impossibilità di istituire riserve protette sulle aree dove gli indigeni non erano presenti alla data del 5 ottobre 1988. Data in cui entrò in vigore l’attuale costituzione. Anche se il il giudice della Corte Suprema Edson Fachin ricorda che:

 

… i diritti territoriali indigeni sono riconosciuti dalla Costituzione, ma preesistono alla promulgazione della Costituzione stessa”.

 

Inoltre, non avrebbero potuto essere demarcate, ovvero mappate, quindi riconosciute come zone su cui insistono dei diritti dei popoli nativi. In tal modo la nazione era libera di violare i diritti dei popoli indigeni, approfittando della loro instabilità, instaurata dallo Stato stesso. Questo perchè in molti erano stati costretti a lasciare le loro terre ancestrali da politiche statali, durante la dittatura militare tra gli anni ’60 e ’80. Per tale motivo, gli indigeni si battono da anni per l’istituzione e la promozione di riserve naturali e aree protette. Sono l’unico modo con il quale riuscirebbero a bloccare lo sfruttamento delle loro terre da parte delle multinazionali dell’allevamento, del disboscamento e dell’estrazione mineraria.

   

Fortunatamente, con forza e determinazione, i popoli della foresta sono riusciti (con le loro proteste e i loro appelli) a cambiare la rotta di questo processo.

   

Verso la vittoria

Prima ancora che la legge fosse approvata alla Camera, i rappresentanti delle popolazioni indigene hanno organizzato delle manifestazioni contro il governo. Per esempio, a San Paolo hanno bloccato l’autostrada e dato fuoco a pneumatici, per poi usare archi e frecce contro la polizia.  Oppure gruppi di nativi indigeni di tutto il paese hanno programmato una settimana di proteste davanti al Congresso nella capitale Brasilia.  Mentre il cacique (cioè il capo tribale) Raoni Metuktire, ha presentato una petizione contro le restrizioni alla demarcazione delle terre dei nativi.

   

Tutto questo, il cambio di governo e forse una maggiore sensibilizzazione al tema hanno portato alla grande vittoria. Così, la legge proposta durante il governo Bolsonaro è stata bloccata e rispedita al mittente pochi giorni fa. La procedura durata due anni è finita con una vittoria netta per popoli indigeni e attivisti ambientali. Nello specifico 9 degli 11 giudici della Corte Suprema si sono dichiarati contrari ad approvare il Marco Temporal.

 

Fiona Watson di Survival International ha dichiarato:

 

È una vittoria storica, cruciale per i popoli indigeni del Brasile e una grande sconfitta per la lobby dell’agrobusiness”.

 

Il Marco Temporal era uno stratagemma pensato per legalizzare il furto di milioni di ettari di terra indigena. Se fosse stato approvato, decine di popoli ne sarebbero usciti devastati – come migliaia di Guarani e i Kawahiva incontattati”.

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L’isola di Arholma è autonoma grazie ad un sistema di accumulo energetico italiano.

By : Aldo |Settembre 22, 2023 |Efficienza energetica, Emissioni, energia, Home |Commenti disabilitati su L’isola di Arholma è autonoma grazie ad un sistema di accumulo energetico italiano.

Si sa che il Made in Italy, per quanto dimentica in certi ambiti, resta sempre una cifra di stile, bontà del prodotto e sicurezza. Quello esportato gode di una certa fama e con il passare del tempo si fa strada anche nel settore energetico, grazie a studi e innovazioni.

 

Il marchigiano in Svezia

In Svezia, una piccola striscia di terra nel nord-est dell’arcipelago di Stoccolma, chiamata Arholma è diventata autonoma grazie ad un sistema italiano. Arholma è oggi energeticamente autonoma, per via della collaborazione tra l’azienda marchigiana Loccioni e la società svedese “Vattenfall Eldistribución”.

La prima è un’impresa nata nel 1968 come un progetto che integra idee, persone e tecnologie, che lavora per il benessere della persona e del pianeta. Nello specifico si occupa di realizzare sistemi di misura e controllo per migliorare la qualità, la sicurezza e la sostenibilità di processi e prodotti industriali. La seconda invece è una delle maggiori società svedesi produttrice di energia elettrica, venduta anche per Danimarca, Finlandia, Germania, Paesi Bassi e Regno Unito.

Tale collaborazione ha reso possibile la realizzazione un prototipo che aiuti concretamente la piccola isola nei momenti di necessità.

    

Arholma

Si parla di una striscia di terra lunga 5 chilometri e larga 2 chilometri ed è l’isola più settentrionale dell’arcipelago prima del mare delle Åland. É caratteristica per la pittoresca combinazione di edifici tradizionali in legno, terreni agricoli, foreste e coste rocciose, motivo per cui è affollata durante l’estate. Nel 1963 Skärgårdsstiftelsen (la Fondazione Arcipelago) ha avviato un programma di conservazione della natura su Arholma. Pertanto, una vasta area comprese delle isole limitrofi sono parte di una riserva naturale, nella quale sono conservate anche metodi tradizionali si silvicultura e agricoltura.

    

L’istituzione di un’area protetta definisce l’importanza dell’ambiente nell’area che tuttavia in estate diventa una meta turistica gettonata. Appunto l’isola ha una popolazione di circa 70 persone che aumentano in estate toccando le 600. Proprio questa è una delle ragioni principali della costruzione del sistema. Infatti il prototipo prevede la fornitura di un sistema di accumulo energetico capace di sostenere carichi eccessivi, molto comuni durante l’estate. Oppure per interruzioni improvvise delle forniture, come durante forti temporali. La possibilità deriva dal fatto che il sistema energetico della microrete consente di interfacciarsi con la rete elettrica esistente sull’isola.

   

La microrete

Dunque, il sistema in esame è una smart microgrid, un sistema energetico intelligente su piccola scala per fornire energia in tutto il mondo. Nel caso specifico, la microrete dell’isola è stata realizzata ad Ancona tramite la cooperazione di entrambi gli enti. Il sistema è collegato a 2 batterie di accumulo, pronte a immagazzinare energia quando arriva quella elettrica dalla terraferma. Queste garantiscono l’approvvigionamento elettrico dell’isola per più di due ore. Ma è anche collegato ad un impianto fotovoltaico, che produce energia; di conseguenza il meccanismo ne accumulerà per via dei sistemi di accumulo. Successivamente verrà distribuita alla popolazione locale e poi la esporterà.

   

La CEO di Vattenfall Eldistribution AB, Annika Viklund afferma che il progetto ha lo scopo di capire come le microreti interagiscono con la rete principale. Una volta studiato tale processo, l’azienda valuterà se questi sistemi possono essere utilizzati in una circostanza più ampia, per soddisfare altre necessità della rete. Così facendo potrebbero garantire una risposta efficiente, ad una elevata richiesta della rete elettrica e una maggiore qualità dell’offerta locale.

     

Loccioni in Italia e in Svezia

Tuttavia non si tratta nè della prima opera dell’azienda marchigiana, nè del primo progetto in collaborazione con la Svezia. Un esempio di sistemi energetici di micro-rete mirati alla completa autonomia energetica è quello realizzato lungo il fiume Esino (Marche), nominato “Due chilometri di futuro”.

  

Mentre in Svezia, Loccioni, ha inaugurato la prima isola energetica della Scandinavia, precisamente a Simris (costa sud ovest). Anche in questo caso il progetto è frutto di una collaborazione con LES, Local Energy System, ed EO.N, il colosso tedesco dell’energia. Grazie a tale lavoro, l’energia che alimenterà la cittadina sul mare sarà esclusivamente prodotta in loco, rinnovabile, senza emissioni di CO2 e disponibile al bisogno. Ad oggi invece, lo smart microgrid di Arholma è considerato un progetto pilota.

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L’UE ha perso 15 mila km di binari e questo è un problema per l’ambiente.

By : Aldo |Settembre 19, 2023 |Efficienza energetica, Emissioni, Home |Commenti disabilitati su L’UE ha perso 15 mila km di binari e questo è un problema per l’ambiente.

Tante tecnologie e innovazioni ci aiutano quotidianamente per ridurre il nostro impatto sulla Terra.

Eppure, ci sono processi molto semplici che non vengono portati avanti che invece cambierebbero di gran lunga la nostra presenza nel mondo.

    

L’importanza dei trasporti pubblici

Secondo il sito per le statistiche sul cambiamento climatico, OurWorldinData, il settore dei trasporti contribuiva al 16,2% delle emissioni su scala globale nel 2016. Questa è una cifra non indifferente, non a caso il settore è considerato come una delle principali cause della crisi climatica in atto. Per quanto riportato dall’ EEA (Agenzia Europea dell’Ambiente) oggi quasi 72% delle emissioni legate a questo settore proviene dai veicoli a motore. Di seguito troviamo il trasporto aereo con il 13.9% e quello marittimo con il 13.4%, mentre quello ferroviario rappresenta solo l’1%.

   

Gli studi correlati a tale monitoraggio rivelano che le emissioni dovute ai trasporti hanno segnato un costante incremento dal 1990. Poi nel 2007 si toccò il tetto massimo mai raggiunto di 1 milione e centomila tonnellate di CO2 equivalente, per poi raggiungere il minimo nel 2013. Purtroppo le proiezioni dell’EEA, descrivono un nuovo incremento, ovvero che nel 2030 le emissioni legate ai trasporti si assesteranno alla quota del 2007.  Tuttavia, questo numero rappresenterà un aumento del 32% rispetto ai livelli registrati nel 1990 complicando la corsa alla neutralità climatica fissata dall’Unione entro il 2050.

    

Perchè non usiamo i mezzi pubblici?

Come descritto nel paragrafo precedente, il trasporto ferroviario è quello che produce meno emissioni, dunque sarebbe il più sostenibile.

In generale i mezzi di trasporto pubblici come autobus, tram e treni sono sempre la scelta giusta per ridurre la propria impronta di carbonio sul mondo. Peccato però che non sono sviluppati bene in tutto il mondo, o nello specifico in Italia. Forse è anche per questo che si preferiscono altri mezzi a quelli appena citati, anche se consapevoli di favorire un maggior inquinamento. L’altro dilemma è la mancanza di finanziamenti per la manutenzione delle strutture ferroviarie.

  

Questo è un problema europeo ed è stato studiato dal Greenpeace Europa centro-orientale (CEE) al Wuppertal Institut e al T3 Transportation Think Tank. La questione venne sollevata già nel 1995, quando vennero presi i primi impegni globali per ridurre le emissioni di gas serra. Da quell’anno, i Paesi europei hanno investito per ampliare e ripristinare la rete stradale il 66% in più di quanto abbiano speso per la rete ferroviaria. Si tratta di ben 1.500 miliardi di euro per le infrastrutture stradali e solo 930 miliardi di euro per quelle ferroviarie. Tale scelta, anche in maniera indiretta ha incentivato il trasporto privato quindi con automobili, furgoni e camion per il trasporto merci e ciclomotori. Mezzi che emettono rispettivamente 42, 68 e 72 g CO2/ Km.

     

Le ferrovie europee

Come conseguenza, dal 1995 sono stati costruiti più di 30 mila km di autostrade, mentre le ferrovie sono state ridotte del 6,5%. Tali processi hanno determinato una perdita complessiva di 15 mila km di linee ferroviarie, di cui:

  • 13 mila km di linee ferroviarie, maggiormente regionali
  • 600 fermate e stazioni di treni sono state chiuse penalizzando le comunità delle aree rurali.

Ovviamente l’Italia non presenta dati differenti da quelli europei. Secondo i dati, dal 1995 al 2018 il nostro Paese ha investito il 28% in più sulle strade che sulle ferrovie.

   

Le cifre? 151 miliardi per le prime e 118 miliardi di euro per le seconde. E per quanto riguarda le perdite? Dal 1995 sono state chiuse 40 linee ferroviarie per un totale di più di 1.800 chilometri, che sono facilmente ripristinabili perchè non smantellate. Tutte queste situazioni ovviamente fanno sì che le autostrade vengano usate maggiormente, creando i soliti ingorghi stradali che aumentano il livello di inquinamento. Contemporaneamente, le persone che vivono in aree rurali senza ferrovie, sono costrette ad usare le automobili per ogni spostamento.

   

Questa serie di azioni ha determinato un aumento delle emissioni nel settore dei trasporti, del 15% fra il 1995 e il 2019. Per tale motivo Greenpeace chiede ai governi europei, di spostare i finanziamenti dalla strada alla ferrovia. Così da migliorare le condizioni delle infrastrutture, potenziando quelle regionali e incentivare gli spostamenti con i mezzi pubblici.

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Apple presenta il suo primo prodotto a emissioni zero.

By : Aldo |Settembre 18, 2023 |Consumi, Efficienza energetica, Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Apple presenta il suo primo prodotto a emissioni zero.

Non è facile produrre un oggetto, un alimento o fornire un servizio senza avere un impatto sul pianeta, ma almeno ci si può provare. Apple da anni prova migliorarsi, ponendosi dei grandi obiettivi e mantenendo le sue promesse in fatto di sostenibilità, sorprendendo il mondo intero.

   

L’evento Apple

Ogni anno Apple organizza vari eventi per presentare i nuovi modelli dei suoi prodotti con tante novità in molteplici settori. Tuttavia, l’ultimo, tenutosi il 12 settembre ha segnato punto di svolta dell’azienda nel campo della sostenibilità. Durante l’evento infatti, si è parlato molto di un approccio “green” riferito non solo alla sede centrale e agli store ma anche ai nuovi modelli.

 

Il momento più alto della presentazione è stato la proiezione di un corto dove Octavia Spencer ricopriva il ruolo di una madre natura molto severa. Una figura diffidente rispetto le affermazioni dei dipendenti e del CEO Tim Cook, per quanto riguarda il loro impegno nella sostenibilità. L’attrice americana con la sua figura ha probabilmente espresso anche i dubbi di tante persone nel mondo. Questo sketch ha preceduto la comunicazione più importante dell’evento, ovvero Apple ha creato il suo primo prodotto 100% “carbon neutral”.

   

Apple Watch Series 9

Come ogni anno, sono state presentate le nuove caratteristiche del modello in questione: aggiornamenti, nuove tecnologie e funzioni. Effettivamente si tratta di un prodotto già consolidato nel mercato e quindi sarebbe potuto passare velocemente in cavalleria. Invece non è stato così, perchè Apple lo ha presentato come primo prodotto 100% “carbon neutral” dell’azienda. Un raggiungimento importante per la società di Cupertino, che da anni cerca di ridurre l’impatto delle sue attività, sul pianeta.

 

Questo è solo uno dei tanti obiettivi nell’ambito del piano Apple 2030, il quale prevede l’azzeramento totale delle emissioni per tutti i prodotti Apple.  É un programma che non riguarda la sola produzione ma l’intero ciclo di vita dei prodotti, e che dovrà concretizzarsi entro il 2030. Per tale motivo, questa volta, le iniziative ambientali non sono state delle idee marginali, quanto il tema principale della presentazione.

  

L’orologio “carbon neutral”

La domanda che ora si fanno tutti è: come fa un orologio ad essere “carbon neutral”? Apple ha spiegato tutti i processi con i quali è riuscita a eliminare le emissioni di carbonio per la produzione dell’Apple Watch Serie 9. L’azienda si è impegnata nel rendere ancora più sostenibili vari aspetti del prodotto, passando dalla moda alla meccanica, fino all’energia usata per la sua produzione.

    

La prima grande differenza sono i cinturini. Si parla di cinturini “FineWoven” composti per l’82% da fibre riciclate, eliminando completamente il cuoio (materiale ad alto impatto di CO2).  Questa scelta è stata allargata anche per le collezioni in collaborazione con Hermès, che produrrà cinturini da materiali riciclati a impatto zero.  Inoltre, anche il 100% dell’alluminio usato per la produzione è riciclato. Con tale piano, Apple è in grado di influenzare tante altre aziende e brand internazionali, non solo in un’ipotetica partnership, ma anche nelle loro attività quotidiane.

   

Un altro punto fondamentale è l’energia.

Già dal 2020 Apple ha raggiunto le emissioni zero per tutte le operazioni aziendali, dagli uffici agli Store e le altre attività che controlla direttamente. Questa volta invece si è soffermata anche nel processo di produzione del nuovo modello. Infatti, quest’anno tutta la produzione legata alla gamma è alimentata da energie rinnovabili. Bisogna specificare che questo vuol dire che il fabbisogno di potenza complessivo è completamente coperto da una fornitura equivalente di energie rinnovabili sulla rete. 

   

Nello stesso settore inseriamo anche la ricarica del dispositivo, poiché se si considerano i milioni di utenti, ha un impatto rilevante.  Pertanto, la società ha deciso di compensare tale problematica con l’immissione in rete di energia rinnovabile prodotta da impianti finanziati da Apple. Il piano è quello di immettere l’equivalente dell’elettricità necessaria per ricaricare un Watch durante tutto il ciclo di vita medio del prodotto. Per di più, nel modello esiste la funzione “Grid Forecast” che indica in quali momenti della giornata l’elettricità domestica arriva da fonti rinnovabili. (Per ora si tratta di una funzione tarata soltanto sulla rete statunitense).

  

Apple saluta gli aerei e torna al lento mondo delle navi.
L’azienda ha deciso di tornare alle navi da carico, per generare il 95% in meno di emissioni in meno rispetto al trasporto aereo. In tal modo rischia di avere dei tempi più lunghi di consegna o di stoccaggio nei magazzini, destabilizzando una grande certezza del brand. Ma sono proprio queste le scelte che fanno intendere quale sia la vera volontà della società. Pur di ridurre il proprio impatto, Apple rischia di impiegare più tempo nei trasporti, non garantendo la velocità che fino ad oggi l’ha contraddistinta. A supporto di tale scelta, è stato ottimizzato anche il packaging del prodotto. Grazie all’innovazione, la scatola sarà più compatta e leggera di un quinto a parità di peso e volume, contenendo così il 20% in più di prodotti.

   

Conclusioni

Apple sicuramente non manca di inventiva, tecnologie e finanziamenti per permettersi tali cambiamenti. Tuttavia non è scontato che un’azienda metta in discussione e cambi così tanti aspetti della propria produzione. Per quello che non può cambiare, l’azienda ha pensato di affidarsi a progetti di compensazione con enti quali:

  • Verra;
  • the Climate, Community & Biodiversity (CCB) Standard;
  • the Forest Stewardship Council (FSC).

Così facendo, Apple dovrebbe raggiungere tutti gli obiettivi del piano sviluppato nel 2015. Quest’ultimo prevede l’azzeramento di tutte le emissioni di CO2 per tutti i prodotti Apple e le attività aziendali.

È riuscita anche a convincere circa 300 fornitori, il 90% di quelli con cui lavora a utilizzare esclusivamente forniture di energia rinnovabile nei loro impianti. Questa è l’ennesima prova che con ricerca, attenzione, investimenti e il lavoro di squadra, si può cmabiare il mondo.

 

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Biden cambia gli USA: taglio delle emissioni del 43% entro il 2030.

By : Aldo |Settembre 14, 2023 |Efficienza energetica, Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Biden cambia gli USA: taglio delle emissioni del 43% entro il 2030.

Gli Stati Uniti d’America sono una realtà capace di influenzare il mondo in modo rapido e intenso quasi in ogni settore.

Un ambito in cui però non sono attenti come l’Europa è proprio quello ambientale e della sostenibilità, ma sembra stiano arrivando grandi cambiamenti anche per loro.

   

La scarsa sostenibilità degli USA

L’acronimo EPA sta per “Agenzia per la protezione dell’ambiente”, ovvero un ente statunitense che si occupa della protezione della salute umana e dell’ambiente. Si tratta di un’agenzia nata nel 1970 sotto il governo Nixon, guidata da un direttore che viene nominato dal presidente, poi confermato dal senato. Di certo nell’ultima decade, ha subito una serie di cambiamenti dettati dalla successione di presidenti con idee totalmente diverse. Soprattutto durante il mandato Trump, che ha creato non pochi problemi all’ambiente degli USA con nuove leggi, revoche di divieti e affermazioni poco veritiere.

 

Nei suoi 4 anni, il repubblicano ha intrapreso un grande percorso per ridurre precedenti regolamentazioni soprattutto ambientali. Tra queste ha sostituito il Clean Power Plan, ridefinito i termini critici ai sensi della Endangered Species Act. Inoltre, ha revocato i divieti di estrazione di petrolio e gas naturale, indebolito la Coal Ash Rule, che regola lo smaltimento dei rifiuti di carbone tossici. Per non parlare della revisione degli standard sul mercurio e sulle sostanze tossiche nell’aria. Il problema di tali mosse ricade sul fatto che il blocco o la revisione di certe leggi o regolamenti, ha fermato processi importanti (lunghi anni).

  

Con l’arrivo di Biden, sembrava che l’America potesse proteggere seriamente la natura e la salute dei cittadini; ma è veramente così?

    

Inflation Reduction Act

Il cosiddetto IRA è un pacchetto di norme per stimolare l’economia e accelerare la transizione energetica. Si può descrivere come un disegno di legge che favorirà la riduzione del deficit per combattere l’inflazione, incrementando e diversificando le soluzioni climatiche.

   

Tenendo da parte l’economia, sembra che l’IRA possa portare a una riduzione delle emissioni del 43% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2030. Parliamo di un disegno di legge che dimostra l’importanza di avere un’ampia serie di soluzioni climatiche innovative per migliorare le strategie di decarbonizzazione. É fondamentale anche per raggiungere gli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni e per diventare un modello di politica climatica globale.  Senz’altro resta una azione strategica per mantenere e aumentare il consenso politico.

  

L’IRA, ormai è legge, sarà comunque seguita dal CATF (Clean Air Task Force) che collaborerà con responsabili politici, l’amministrazione presidenziale e le altre parti interessate. Questa integrazione consentirà un maggior controllo sull’implementazione, la localizzazione e la costruzione di infrastrutture per l’energia pulita e sulle nuove norme per la decarbonizzazione.

   

Questa legge prevede vari criteri e step quali:

  • Passi avanti trasformativi per ridurre le emissioni di metano;
  • Nuovi crediti d’imposta tecnologicamente neutri per i progetti che generano elettricità a zero emissioni di gas serra;
  • Potenziamento del credito d’imposta 45Q per incentivare la cattura, la rimozione, il trasporto e lo stoccaggio del carbonio;
  • Credito d’imposta per la produzione di idrogeno per sostenere la leadership degli Stati Uniti nei carburanti a zero emissioni di carbonio;
  • Investimenti senza precedenti per la decarbonizzazione dei trasporti;
  • I crediti d’imposta specifici per l’energia nucleare e quelli neutri dal punto di vista tecnologico rafforzano il valore dell’energia nucleare;
  • Sostegno alle tecnologie geotermiche di nuova generazione, come energia superhot rock;
  • Investire in infrastrutture per l’energia pulita.

   

Gli studi dell’EPA

L’EPA (United States Environmental Protection Agency) ha quindi studiato in modo approfondito la questione, analizzando numeri e obiettivi. Secondo l’ente, l’IRA è un buon incentivo per un cambiamento sostanziale, ma non è abbastanza per er centrare gli obiettivi sul clima del decennio. Nonostante ciò, ci si avvicina molto.

   

È stato calcolato che con tale programma si potrebbe abbattere tra il 49% e l’83% di emissioni legate alla generazione elettrica entro il 2030. Nello specifico i tagli più significativi sono correlati al settore dell’edilizia residenziale e commerciale, dell’industria e dei trasporti. Questo sarà possibile grazie agli investimenti (pari a 391 miliardi di dollari) pensati per incentivare l’utilizzo di energia pulita e delle rinnovabili.

   

Con tale manovra l’EPA calcola che le emissioni nazionali annue di CO2 degli Stati Uniti dovrebbero scendere, nel 2035, a 3,3 miliardi di tonnellate (Gt). Questa è una cifra sorprendente poiché segna l’equivalente di spegnere 214 centrali a carbone. Senza l’approvazione della nuova legge, non si sarebbe raggiunto lo stesso numero anzi, le emissioni avrebbero raggiunto i 4,1 Gt. Parliamo dunque di un dato che si avvicina molto agli obiettivi sul clima annunciati nel 2021, con almeno -50%, sempre rispetto ai livelli di gas serra del 2005.

   

Tuttavia, c’è chi contesta anche questa legge, a causa di un’attenzione rivolta prevalentemente alla fascia economica e meno a quella legata alla sostenibilità.

    

Le contestazioni

Nonostante gli sforzi, i nuovi regolamenti e gli investimenti, c’è chi contesta le scelte del Presidente americano. Per quanto l’IRA possa essere un incentivo ai grandi cambiamenti, è legge criticata da molti e per molteplici aspetti.

Tra questi:

  • I lunghi tempi burocratici per ottenere i permessi per la costruzione degli impianti. Si parla di 5 anni per un parco solare e 7 per un parco eolico.
  • Ritardi nelle autorizzazioni con un conseguente l’abbandono dei progetti e quindi un aumento dei costi;
  • La necessità di più finanziamenti vista la rilevanza economica degli USA a livello globale;
  • La scelta delle aree per la costruzione dei parchi eolici e solari.
  • La probabile perdita di elettricità per il trasporto (per le aree sono lontane dal centro)

Inoltre, in molti ritengono che non ci sia un vero e proprio piano per difendere l’ambiente visti gli ultimi progetti approvati. Come il programma di Conocophilips, il più grande progetto di trivellazione petrolifera a Willow (Alaska) un’ampia area naturale indisturbata.

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Nel futuro produrremo acqua dolce dalle fattorie verticali galleggianti.

By : Aldo |Settembre 12, 2023 |Consumi, Emissioni, Home, menoconsumi |Commenti disabilitati su Nel futuro produrremo acqua dolce dalle fattorie verticali galleggianti.

Le sfide per il futuro sono tante, diverse, ma tutte collegate, l’una con l’altra. Pertanto, è importante tenere in considerazione più ambiti nella ricerca e nello studio di nuovi prodotti o nuovi progetti.

    

La sfida dell’acqua dolce

La sfida dell’acqua dolce non è un concetto da correlare ad un futuro lontano, poiché c’è già chi combatte quotidianamente per averne una tanica.  Ad oggi sono 768 milioni (11%) le persone che nel mondo non ne hanno nemmeno il minimo necessario per la mera sopravvivenza. Inoltre, con il passare degli anni si prevede un continuo incremento della popolazione, quasi 10 miliardi entro il 2050, quindi aumenterà anche la domanda. Pertanto, i centri di ricerca lavorano costantemente per trovare le soluzioni più disparate per rimediare a tale problema.  

   

Il fatto è che l’acqua dolce non ci serve solo per bere, lavarci e lavare, ma è necessaria per l’agricoltura e migliaia processi di produzione. Tuttavia, al momento i maggiori serbatoi sono i ghiacciai, gli oceani e il sottosuolo, dai quali ne abbiamo una disponibilità diretta del 2,5%. Questo significa che, se la situazione non cambiasse ben 2,4 miliardi di persone potrebbero avere carenze idriche entro il 2050.

   

Per tale motivo sono stati inventati dei sistemi che facilitano la produzione di acqua dolce affiancati da ulteriori programmi legati alla sostenibilità.

    

Il progetto galleggiante

Per ridurre l’uso dell’acqua dolce legata all’agricoltura e rendere sostenibile ed efficiente una produzione agricola, sono stati inventati dei sistemi galleggianti. In questo caso, si può citare lo studio “An interfacial solar evaporation enabled autonomous double-layered vertical floating solar sea farm”. Si tratta di un lavoro svolto dalla University of South Australia e dalla Hubei University of Technology in China pubblicato su “Chemical Engineering Journal”.

    

Il progetto descritto in questo paper riguarda la cosiddetta “fattoria verticale galleggiante”. Si tratta di una struttura galleggiante nel quale si coltivano piante grazie all’acqua dolce ricavata dell’acqua di mare. Gli studiosi pensano sia un piano di enorme impatto e che possa portare soluzioni a questioni importanti quali:

  • La riduzione di emissioni di CO2 ;
  • Un minor utilizzo del suolo e quindi un minor inquinamento;
  • L’utilizzo di energie rinnovabili;
  • Una maggiore produzione di acqua dolce.

In sintesi, sarà una struttura autosufficiente, in grado di far evaporare l’acqua del mare per convertirla in acqua dolce. Così, sarà possibile organizzare delle coltivazioni “autonome”, ovvero che non hanno bisogno dell’intervento umano.

   

Come funziona?

In inglese “farm” in italiano “fattoria” ma non sono stati inclusi animali nel progetto di Haolan Xu e Gary Owens del Future Industries Institute.  Il loro prototipo è strutturato in 2 camere disposte in verticale, dove la superiore è una serra e in quella inferiore si raccoglie l’acqua. I due ricercatori hanno fatto degli esperimenti per provare l’efficienza della “fattoria”, coltivando 3 ortaggi sulla superficie dell’acqua di mare. La coltivazione non prevede l’aggiunta di acqua dolce e alcun tipo di manutenzione, mentre è supportata da un’alimentazione a energia solare.

 

Come accennato prima, i vantaggi di questa tecnologia sono molteplici e possono aiutare l’uomo come anche il pianeta. Un vantaggio rilevante è quello legato alla produzione di acqua potabile.  Infatti, la camera inferiore, consente la raccolta e l’evaporazione dell’acqua di mare, producendo acqua dolce con un processo automatizzato e a basso costo. Secondo le analisi, l’acqua riciclata prodotta dal dispositivo ha un tasso di salinità inferiore a quello prescritto per l’acqua potabile dalle linee guida sanitarie mondiali. Quindi, oltre a produrre cibo (con l’agricoltura) si potrà avere una quantità d’acqua potabile usufruibile per vari impieghi.

   

Simili

Senza dubbio questo non è il primo progetto che lega la coltivazione all’ambiente marino, oppure l’allevamento sul mare. Un esempio italiano è il Nemo’s Garden, delle biosfere galleggianti a 5-10 metri di profondità nella Baia di Noli, in Liguria. Ciascuna contiene 2.000 litri d’aria e sfrutta la combinazione di acqua fresca e luce calda solare, per una adeguata coltura idroponica.

   

Oppure a Rotterdam è stata costruita una fattoria galleggiante su una chiatta con quaranta vacche e settemila galline ovaiole. Il progetto è sostenibile per vari punti di vista come:

  • Abbeveramento: si usa l’acqua piovana, raccolta sul tetto e poi filtrata;
  • Nutrimento: vengono usati cereali provenienti da diversi birrifici, crusca dai mulini, erba dai campi sportivi e bucce di patate da un trasformatore. Tutti questi alimenti sono a “Km 0” o comunque si tratta di enti locali.
  • L’energia: è for è fornita da pannelli solari galleggianti.

Sicuramente non è facile creare delle strutture simili, per via della ricerca e lo studio che li precedono, la necessità di finanziamenti e di permessi burocratici.

Ma, nonostante ciò, questi sono esperimenti che dimostrano che le soluzioni ai nostri problemi esistono, sono funzionali e non danneggiano l’ambiente.

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I nuovi reef e le ostriche: come possiamo rigenerare il mare con le sue stesse risorse.

By : Aldo |Settembre 11, 2023 |Arte sostenibile, Home, mare |Commenti disabilitati su I nuovi reef e le ostriche: come possiamo rigenerare il mare con le sue stesse risorse.

Abbiamo già parlato di come la natura spesse volte si possa curare, rigenerare e recuperare attraverso le sue stesse risorse. Stavolta si tratta del mare e dei suoi abitanti, ma soprattutto di come possiamo sanificarlo con processi naturali e poco invasivi.

Le barriere coralline

Tutti abbiamo in mente un’immagine di una barriera corallina: solitamente si pensa ai coralli colorati, a pesci di varie specie, spugne ed altro. Effettivamente le barriere sarebbero così se non avessimo inquinato il mondo intero e quindi anche il mare, con un’azione diretta e negativa sulla loro salute. Le barriere coralline non sono solamente un elemento marino che crea un bel paesaggio. Si tratta di strutture che ospitano una biodiversità unica al mondo quindi proteggerle significa tutelare il patrimonio naturale ma anche altro. Un esempio sono le comunità che da esse dipendono sia economicamente che socialmente legate per l’appunto alla biodiversità che le abita. Precisamente ci sono centinaia di milioni di persone che grazie al coralligeno hanno un indotto economico e anche del cibo.

   

Le minacce e il pericolo

Nonostante abbia dei ruoli importanti come quello di nursery, di sink di carbonio e di centro di biodiversità, la barriera corallina è in grave pericolo. Il problema? Sempre lui, il cambiamento climatico (o potremmo dire l’uomo), che ha portato ad un “elevato rischio di estinzione” i coralli.  Questa situazione è scaturita da una serie di eventi correlati all’uomo, quali la pesca, la distruzione di habitat e l’inquinamento e l’innalzamento delle temperature.  

   

Per la velocità e l’intensità dei cambiamenti climatici è già prevista una perdita del 50% nei prossimi 30 anni.  Nello specifico, gli studi affermano che, con un aumento della temperatura di 1,5°C, potremmo perdere il 90% delle barriere coralline, con 2°C scomparirebbero totalmente.  Per comprendere bene quello che sta accadendo si può riportare un esempio pratico. Dal 2009 al 2019 le barriere hanno subito ripetuti ed estesi eventi di mortalità di massa, causando una riduzione delle aree del reef del 14%.

    

Si potrebbe pensare sia una cifra minima, ma in realtà rappresenta una perdita di superficie pari all’area totale coperta dalle barriere coralline australiane. Pertanto, ricercatori, biologi marini e ambientologi da anni studiano delle tecnologie per ripristinare questi habitat, la loro biodiversità, dunque le attività umane ad essi correlate.
  

I nuovi reef

I progetti per cambiare rotta sono molteplici e tra i tanti possiamo descrivere uno particolare. Si tratta di un progetto di rigenerazione del mare parte dallo sviluppo di una specie di barriera corallina derivata dalle ostriche. Il piano prevede un arricchimento della biodiversità che determina importanti benefici socio-economici per il territorio in cui verrà sviluppato.  Il programma ideato dall’ENEA mira alla creazione di prototipi di reef, realizzati con scarti di allevamento dei molluschi quali gusci di militi e fibre naturali.

   

Ci sono invece altri programmi a livello internazionale che mirano alla rigenerazione del coralligeno per mezzo di una coltivazione di coralli. Si parla di aree sul substrato marino che accolgono delle strutture nelle quali sono disposti frammenti di coralli, che cresceranno con il tempo.

   
Le ostriche e L’ENEA

Il primo progetto citato ha come obiettivo quello di ripopolare con l’ostrica piatta europea il mare del Golfo di La Spezia. Si sviluppa in collaborazione con la Cooperativa Mitilicoltori Associati di La Spezia, rientrando anche nel progetto PNRR RAISE. Quest’ultimo (Robotics and AI for Socio-economic Empowerment) è un programma usato per consolidare l’innovazione ad alta vocazione tecnologica tra le filiere portanti dell’economia ligure.Prevede un budget di 120 milioni di euro a valere sulle risorse previste per il PNRR. In aggiunta il piano segue i principi della rete Native Oyster Network, un organo consultivo già attivo in altre nazioni come l’Irlanda e il Regno Unito.

  

E come se non bastasse, l’ENEA e la Cooperativa, sono parte di Smart Bay S. Teresa, un centro di ricerca specializzato negli ecosistemi calcificanti. È un laboratorio dedicato anche a tutto quello che concerne la rigenerazione dell’ambiente e delle aree portuali e la valorizzazione degli scarti dell’acquacoltura.

   

Perchè proprio l’ostrica piatta

La scelta di questa specie ovviamente non è casuale, anzi deriva dalla sua capacità di rigenerare gli ambienti marini e fornire altri servizi ecosistemici.

Tra le varie azioni svolte dall’ostrica piatta si possono citare la regolazione del clima e il mantenimento della biodiversità. In più, essendo un filtratore aiuta a mantenere pulita l’acqua, senza dimenticare una delle sue funzioni più legata all’uomo, ossia l’essere fonte di cibo.

  

È un mollusco originario dell’Europa, che cresce lentamente e che può formare strutture molto simili ad una barriera corallina. Pertanto, è capace di creare un habitat adatto a pesci giovani (se non nursery), granchi, lumache di mare e spugne. Le capacità dell’ostrica erano già verso il 1900, purtroppo però Le attività costiere, l’impatto antropico e il cambiamento climatico ne hanno ridotto drasticamente la presenza.

 

Questo come tanti altri, sono progetti con un’ampio range di azione, proprio perchè legati all’ecologia e alla sostenibilità quindi, godono di una visione a 360°. Non a caso, si passa dall’azione di ripristino dell’habitat marino, ai vantaggi per l’intero mare, fino alle proprietà che favoriscono l’economia blu.

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Il sughero non è una materia infinita e noi non lo ricicliamo. Perchè?

By : Aldo |Settembre 07, 2023 |Arte sostenibile, Emissioni, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti, plasticfree |Commenti disabilitati su Il sughero non è una materia infinita e noi non lo ricicliamo. Perchè?

La raccolta differenziata e il corretto smaltimento dei materiali che usiamo quotidianamente, sono delle pratiche rilevanti per instaurare un’economia circolare.

Eppure, sembra che non siano stati studiati metodi con cui riutilizzare delle materie prime pregiate: una di queste è il sughero.

Cos’è il sughero e come si estrae

Il sughero è un tessuto secondario che riveste il fusto e le radici delle piante fanerogame come la quercia da sughero o “sughera” (Quercus suber). Si tratta di alberi alti oltre 20 m che hanno un diametro di 1,5 m e sono diffusi in maniera limitata nel Mediterraneo occidentale.  Si trovano anche in Africa settentrionale, Portogallo, Spagna e in Italia, principalmente in Sardegna dove viene coltivata e poi in Toscana, Lazio e Sicilia.

  

Il processo di estrazione del sughero è diviso in 2 azioni simili, svolte a distanza di 10 anni l’una dall’altra. Infatti, la raccolta inizia quando il tronco ha una circonferenza di 30-40 cm, quindi più o meno dopo i 20 anni di età. In questa prima fase, detta “demaschiatura” (per via del nome dato al sughero vergine, “maschio” o sugherone) si praticano delle incisioni.  Queste servono per staccare con cura le strisce di scorza, senza rovinare il fellogeno, dal quale si ricava il nuovo sughero.

  

Dopodiché, si genererà annualmente un anello e 10 anni dopo la demaschiatura lo spessore sarà di 3cm e l’albero sarà pronto per l’estrazione del sughero. La sua asportazione procede dalla base del tronco verso l’alto, poi viene tolto ogni 9-12 anni, così l’albero resta produttivo e vive fino a 150-180 anni.

Tale processo si svolge tra i primi di maggio e la fine di agosto, quando il materiale in esame si stacca più facilmente, lasciando sana la pianta.

   

Gli impieghi del sughero

Per le molteplici caratteristiche chimico-fisiche, il sughero può essere impiegato in vari ambiti. Tra le sue proprietà possiamo citare la resistenza al fuoco e all’usura, l’elasticità e l’isolamento (elettrico, termico e acustico). In aggiunta è inattaccabile da insetti e roditori ed è anche inodore, insapore, imputrescibile e non tossico.

    

Può essere usato in vari settori e in vari modi, per esempio;

  • È impiegato per la fabbricazione dei turaccioli: per la sua elasticità e di impermeabilità, grazie alle quali garantisce una chiusura ermetica delle bottiglie;
  • É utilizzato nell’industria farmaceutica e in quella cosmetica;
  • Lo troviamo ancora nella fabbricazione di solette e soprasuole per scarpe, rivestimenti isolanti, galleggianti per le reti da pesca, salvagenti, imballaggi per materiali fragili ecc;
  • Per la fabbricazione del linoleum e di agglomerati espansi, utili per l’isolamento termico e acustico degli ambienti.  

I tappi e il riciclo

I tappi di sughero sono dei prodotti di grande valore che potrebbero alimentare un grande settore dell’economia, incrementando un circolo di riciclo e riutilizzo rilevante. Solo in Italia ne vengono prodotti 1,2 miliardi all’anno e nel mondo sono almeno dieci volte tanti. Nonostante si tratti di un materiale recuperabile al 100% e non infinito, la loro vita finisce nel momento in cui viene stappata una bottiglia.

In più la crescita del settore vinicolo, determina un aumento delle pressioni sui querceti, dunque, diventa necessario trovare rapidamente un sostituto a tale materia. Per questa ragione il riciclo dei tappi sarebbe necessario, se non urgente, ma come impostarlo?

   

Sicuramente la raccolta specifica di tappi, per il singolo cittadino e le attività ristorative sarebbe un buon inizio per cambiare il trend negativo. Già con un’attività simile, potremmo incentivare il risparmio di risorse naturali ed energia, dando nuova vita al sughero.  Per esempio, si potrebbero creare nuovi tappi, realizzare strati isolanti e fonoassorbenti che migliorano le prestazioni energetiche degli edifici o suole e tacchi per le scarpe. Un esempio è il progetto Recooper a Bologna o del Comune di Tradate (Lombardia) che dal dicembre 2022 hanno attivato un punto di raccolta pubblico.

   

Una seconda opzione è quella di finanziare progetti di consorzi specializzati nel recupero e nel corretto smaltimento del sughero. O ancora ci si può indirizzare verso il fai da te, come nel caso colosso del sughero Amorim Cork. L’azienda ha preso accordi con 45 onlus sul territorio nazionale per raccogliere tappi e trasformarli in oggetti di interior design.

   

Nel mondo

Nel mondo invece sono state sviluppate altre iniziative per il riciclo del sughero in generale. Un caso è quello di Seondong a Seoul, che ha stipulato un accordo con un’impresa di costruzione di impianti sportivi specializzata nel di riciclo del sughero. L’accordo prevede la partecipazione di ben 45 commercianti di vino che raccoglieranno i tappi inviandoli all’impresa, per la creazione di passaggi pedonali vicino all’ufficio distrettuale.

   

Oppure in Portogallo nel 2005 ha posizionato i primi contenitori per la raccolta differenziata dei tappi di sughero, anche presso gli esercizi commerciali. Non a caso il portogallo è il più grande produttore di sughero, seguito da Spagna, Algeria e Italia.

   

Il riciclo e il riutilizzo sono azioni basilari per una vita e un futuro sostenibile. Senza una buona pratica di tali processi, potrebbe essere difficile mantenere la qualità di certe materie prime o garantire le stesse quantità nei prossimi anni. Proprio per questo dovremmo basarci sempre più su un’economia circolare, perchè serve a noi tanto quanto al pianeta.

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Aumentano gli ordini di turbine eoliche nel 2023: raggiunti i 69 GW.

By : Aldo |Settembre 05, 2023 |Consumi, Efficienza energetica, Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Aumentano gli ordini di turbine eoliche nel 2023: raggiunti i 69 GW.

Anche se siamo abituati a progetti mai portati a termine, programmi difficili da realizzare o pochi investimenti, sembra che nel mondo stia cambiando qualcosa.

Un’impennata nell’eolico fa aprire gli occhi sulle sue potenzialità e sul suo potere tra le energie rinnovabili.

    

Il boost di ordini e di energie

Wood Mackenzie, è un gruppo globale di ricerca e consulenza che fornisce dati, analisi scritte e consulenze ai settori energetico, delle energie rinnovabili ed altro. Secondo la loro ultima analisi, gli ordini globali di aerogeneratori sono aumentati di molto nel primo semestre 2023, con una crescita del 12% su base annua. In soli sei mesi, gli ordini riguardanti i componenti delle pale eoliche sono aumentati a dismisura. Si tratta di un incremento della domanda del 12% rispetto al 2022.

  

Tale crescita ha consentito il raggiungimento di 69,5 gigawatt di attività, per un un valore di mercato di ben 40,5 miliardi di dollari. Questa tendenza è stata potenziata soprattutto dalla domanda della Cina e successivamente dall’attività di mercato del Nord America.

   

La Repubblica popolare cinese

Si può affermare con certezza che la Repubblica popolare della Cina sia la responsabile di più della metà degli ordini effettuati in sei mesi. Infatti da gennaio a giugno, la domanda di nuovi aerogeneratori è aumentata del 47%, toccando i 25 GW di attività. Così facendo, ha determinato più della metà degli ordini a livello globale.

  

Secondo i dati del Global Wind Energy Council di Bruxelles, resta il maggior produttore mondiale di energia eolica. Il gigante asiatico, infatti, rappresenta una quota del 60% sul mercato globale (2022), grazie al dominio delle sue aziende. Queste hanno consentito una crescita dal 37% che aveva nel 2018 all’attuale 57%. Non a caso, delle 15 maggiori compagnie al mondo impegnate nell’eolico, dieci sono cinesi, tra queste

  • Gold Wind: quota sul mercato globale pari al 13%
  • Envision (9%) quinta classificata con 9,7 GW;
  • Windey che ha toccato i 8,2 GW.
  • Mingyang Smart Energy (7%) a sesta

Il Nord America

Mentre il Nord America ha aumentato i suoi acquisti, raggiungendo un’attività di 7,7 GW, il quadruplo rispetto al primo semestre del 2022 (1,9 GW).

In tal caso, questo incremento è dovuto all’Inflation Reduction Act, ossia un provvedimento statunitense che promuove il settore della transizione energetica. Tale iniziativa serve per favorire sia la produzione di auto che all’approvvigionamento dell’energia da parte di cittadini e aziende. Si tratta di un disegno di legge di spesa di grandi dimensioni che contemporaneamente attua due grandi iniziative. Una serve per combattere l’inflazione, l’altra consente di sviluppare soluzioni climatiche.

  

Una volta attuato, questo provvedimento dovrebbe ridurre le emissioni del 42% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2030. Mentre per quanto riguarda l’inflazione, si potrà godere di una riduzione netta del deficit di 102 miliardi di dollari nel periodo 2022-2031. 

Questa legge prevede vari criteri e step quali:

  • Passi avanti trasformativi per ridurre le emissioni di metano;
  • Nuovi crediti d’imposta tecnologicamente neutri per i progetti che generano elettricità a zero emissioni di gas serra;
  • Potenziamento del credito d’imposta 45Q per incentivare la cattura, la rimozione, il trasporto e lo stoccaggio del carbonio;
  • Credito d’imposta per la produzione di idrogeno per sostenere la leadership degli Stati Uniti nei carburanti a zero emissioni di carbonio;
  • Investimenti senza precedenti per la decarbonizzazione dei trasporti;
  • I crediti d’imposta specifici per l’energia nucleare e quelli neutri dal punto di vista tecnologico rafforzano il valore dell’energia nucleare;
  • Sostegno alle tecnologie geotermiche di nuova generazione, come energia superhot rock;
  • Investire in infrastrutture per l’energia pulita.

L’eolico offshore

Oltre a questo, è aumentato anche il sotto-segmento dell’eolico offshore, dunque dell’eolico in mare. Anche per questo ambito sono aumentati gli ordini del 26% su base annua, sempre nel primo semestre dell’anno, decretando il record di 12 GW di attività.

Il mercato americano ha aumentato i suoi ordini che variano tra i 2,6 GW e 1,2 GW, favorendo in modo significante il mercato delle rinnovabili.  Tali investimenti sono fondamentali anche perchè nell’ultimo periodo molti accordi sono stati cancellati per mancanza di investimenti. In questo ambito, Siemens Gamesa ha ottenuto il primo posto nella capacità di nuovi ordini di turbine eoliche (5,9 GW) nel secondo trimestre.

In generale giro d’affari globale è stato di 25,3 miliardi dollari, nel secondo quadrimestre e di 40,5 miliardi di dollari (37 miliardi di euro) nei primi sei mesi.

 

Il boost di domanda del Nord America e della Cina risolleva il mercato e favorisce la promozione dell’utilizzo di fonti rinnovabili. Tale situazione è fondamentale per cambiare l’andamento del mercato energetico in futuro; dunque, è un ottimo passo avanti per il settore “Green”

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