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Troppi scarti alimentari. Circular Fiber usa quelli dei carciofi per produrre farina edibile.

By : Aldo |Marzo 05, 2024 |Arte sostenibile, Emissioni, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti |Commenti disabilitati su Troppi scarti alimentari. Circular Fiber usa quelli dei carciofi per produrre farina edibile.

Il problema dello scarto alimentare è un tema che riguarda tutti quanti in modo concreto. Tra gli scarti domestici e quelli delle aziende agricole, si contano migliaia di tonnellate di prodotto con grandi potenzialità che non vengono sfruttate. E per questo che in Italia la ricerca in questo senso sta aumentando per una maggiore circolarità.

    

Gli scarti agroalimentari

Gli scarti alimentari rappresentano un grave problema a livello globale, con importanti implicazioni ambientali, economiche e sociali. Nel mondo si stima che oltre il 33% di tutti gli alimenti prodotti vada sprecato, ossia circa 1,3 miliardi di tonnellate l’anno. Questi scarti contribuiscono in maniera significativa all’aumento delle emissioni di gas serra, alla deforestazione e alla perdita di biodiversità. Inoltre, rappresentano un enorme spreco di risorse idriche e di terre coltivabili. In Italia la situazione non è diversa poiché stima che ogni anno vengano prodotti circa 5,1 milioni di tonnellate di scarti agroalimentari, che corrispondono a circa il 15% del totale della produzione alimentare nazionale.

   

Ridurre tali scarti è una sfida cruciale da affrontare e risolvere il prima possibile per garantire la sostenibilità del nostro sistema alimentare e preservare le risorse naturali per le generazioni future. A questo proposito sono già in azione strategie di miglioramento della gestione delle filiere alimentarie di sensibilizzazione dei consumatori. Tuttavia, queste pratiche dovrebbero essere supportate dall’implementazione di politiche pubbliche mirate possono che contribuiscono a mitigare questo problema globale.

   

Gli scarti dei carciofi

Per affrontare tale problema c’è chi si è focalizzato sugli scarti di un ortaggio specifico, il carciofo. Ma perché proprio i carciofi? In Italia, l’annuale produzione e consumo di Cynara cardunculus (dati Ismea 2020), si aggira intorno alle 378 mila tonnellate. Purtroppo, però, gli scarti derivanti da questa produzione rappresentano oltre il 60% del totale raccolto, fino ad un 75% nelle lavorazioni industriali. Tali cifre evidenziano un grave problema che necessita soluzioni efficaci e sostenibili.

   

Se si pensa poi alla totale produzione di ortaggi, si può solamente immaginare quanto materiale venga eliminato nell’industria, e quanto potenziale esiste tra gli scarti. Proprio per rimediare a tale problema sono nate startup o grandi aziende hanno investito nella ricerca per poter migliorare ed efficientare la loro produzione.

   

La farina Karshof

Circular Fiber è una startup fondata da Luca Cotecchia e Nicola Ancilotto. I due hanno deciso di lavorare la parte erbacea più dura dei carciofi per produrre la Karshof. Si tratta di una farina funzionale ad alta digeribilità, priva di glutine, a basso contenuto di zuccheri ma ricca di fibre (60%), proteine (13%) inulina e cinarina. L’idea è nata dalla tesi di laurea di 5 studenti del master MBA al MIB Trieste School of Management ed è parte del progetto Terra Next di Fondazione Cariplo. Quest’ultimo sostiene l’innovazione nell’ambito della bioeconomia e dell’agricoltura rigenerativa.

    

Il programma prevedeva la formazione di una filiera del carciofo per sfruttare tutto lo scarto possibile. Purtoppo però l’idea è stata abbandonata in poco tempo vista la deperibilità del prodotto che non consente la sua lavorazione in zone lontane dal luogo di produzione. Tale difficoltà ovviamente riguarda l’intera produzione agroalimentare, che spreca fino al 30% della materia prima nell’UE. La  situazione descritta determina enormi perdite economiche oltre ad essere responsabile del 26% delle emissioni di gas serra.

    

Produzione e investimenti

Quindi i due founder di Circular Fiber hanno pensato ad una serie di succursali vicine alle aree di coltivazione e raccolta dei carciofi. Nonostante il progetto sia conveniente e possa effettivamente cambiare il settore, esiste un problema più grande legato ai macchinari. Perché un impianto per la lavorazione degli scarti dell’ortofrutta può costare anche 1.5 milioni di euro a modulo. Questi ultimi sono fondamentali per la trasformazione dello scarto in farina o comunque per produrre altri materiali; quindi, per poter affrontare tale sfida sono necessari anche dei grandi investimenti.

    

I sistemi necessari sono costosi a causa delle caratteristiche dello scarto stesso. Infatti, per produrre la Karshof, serve arrivare ad una fibra secca al 7% di umidità, mentre il carciofo parte da un tasso dell’80%. Per raggiungere le giuste condizioni servono degli essiccatori potenti come quelli del tabacco che eliminano il 75% di umidità in pochi minuti, ma proprio questi sono molto costosi. Circular Fiber ha avuto la possibilità di integrare tali moduli grazie all’investimento di un grande trasformatori della zona, che di recente è entrato nella società. Di certo, non tutti i coltivatori e produttori d’Italia hanno questa fortuna e dunque un diverso utilizzo degli scarti resta una possibilità remota.

    

Spostamenti e sostenibilità

Come anticipato, oltre a tutte le difficoltà citate, in questo settore manca una filiera. Pertanto l’idea dei fondatori di Circular Fiber è quella di far si che la materia possa essere trasformata in zone limitrofe per evitare trasporti lunghi, costosi e inquinanti.

    

Il progetto è quello di produrre farina direttamente nei luoghi di coltivazione e lavorazione dei carciofi, creando così un consorzio di riferimento che consentirà anche di lavorare scarti di altri alimenti.  Così facendo si ridurrebbero gli spostamenti, il tempo e le emissioni di CO2 e i costi legati al carburante e all’energia.

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Mojito Bio, la prima calzatura biodegradabile al 100%.

By : Aldo |Novembre 29, 2023 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti |Commenti disabilitati su Mojito Bio, la prima calzatura biodegradabile al 100%.

Il processo del riciclo è abbastanza importante quanto delicato. Si tratta di un argomento complesso che in certi casi può essere la soluzione al problema e in altri è necessario molto più del trattamento del rifiuto.  Poi però c’è chi, con le tecnologie riesce a trovare la quadra per realizzare i propri sogni sostenibili, in armonia con l’ambiente.

   

S.c.a.r.p.a

S.C.A.R.P.A è un’azienda nata nel 1938 nel cuore delle colline trevigiane ed è leader nella produzione di calzature di montagna e outdoor. Ma soprattutto è rilevante nella sua zona: non a caso il nome della società è l’acronimo di Società Calzaturieri Asolani Riuniti Pedemontana Anonima.

   

La sua caratteristica principale è la produzione di calzature tecniche per le attività montane quali il trekking, lo sci, l’arrampicata, l’alpinismo e l’escursionismo. La seconda, non per importanza è l’attenzione verso la natura e la sua salvaguardia; da qui la motivazione di renderla una “Società Benefit”. Da anni, l’azienda aveva deciso di investire sull’autonomia energetica e la sostenibilità, ma con tale cambio ha scelto di ridurre il suo impatto sul Pianeta. Mettendolo per iscritto, la società ha dichiarato il suo impegno verso l’ambiente e le generazioni future nella maniera più trasparente e diretta possibile.

  

L’aspetto ancora più genuino e sensibile di tale cambiamento è la motivazione alla sua origine. L’amministratore Diego Bolzonello spiega che “Le montagne e la Natura in generale sono il motivo stesso dell’esistenza dell’azienda”, dunque era fondamentale la sostenibilità della produzione.

 

Il Green Lab

Ben 28 anni fa, designer e i ricercatori di S.c.a.r.p.a. hanno deciso di aprire un proprio Green Lab direttamente nella fabbrica, ad Asolo. Oggi, l’azienda ha raggiunto l’autonomia energetica ed ha intrapreso percorsi per ridurre gli scarti per mezzo del processo di riciclo e riutilizzo.

   

Soprattutto, ricorda che ogni anno nel mondo vengono prodotte oltre 24 miliardi di nuove scarpe. La gran parte di queste però arriva in discarica a fine vita, soprattutto quelle da montagna perché difficili da riciclare. Tale peculiarità deriva dal fatto che per la loro produzione vengono usati un mix di materiali difficili da separare.

   

Pertanto, S.c.a.r.p.a. oltre a riciclare le vecchie calzature, ha pensato di creare una rete di risuolatori. In tal modo, ci si può rivolgere per aumentare la vita delle proprie scarpe fino a 4-5 anni. Da questi primi esperimenti sono nati dei prototipi innovativi e totalmente sostenibili, come quelli descritti nel prossimo paragrafo.


Mojito Bio e Maestrale Re-Made

Mojito Bio la prima calzatura certificata biodegradabile al 100% con performance e durabilità che rimangono inalterate. È un prototipo creato in Italia sulla base di una filiera molto attenta e totalmente certificata. Questo vuol dire che tutti i fornitori delle materie prime applicano pratiche industriali sostenibili in termini di:

  • produzione,
  • uso di prodotti chimici,
  • rispetto della salute,
  • della sicurezza e delle condizioni di lavoro dei propri dipendenti.

Inoltre, è stata certificata la biodegradabilità della scarpa, secondo lo standard ASTM D5511. Quest’ultimo misura il livello di decomposizione in assenza di ossigeno e condizioni di temperatura e umidità controllate, pari a quelle negli impianti di trattamento dei rifiuti.

Mentre Maestrale Re-Made è il primo scarpone da sci interamente realizzato con plastiche ricavate da scarti di produzione. Nello specifico, la società dal 1995 ha stoccato e catalogato ben 3 tonnellate di scarti, per poi trasformarli in una calzatura super tecnologica, solo vent’anni dopo. Il risultato è proprio questo nuovo scarpone che segue una filosofia tutta sostenibile.

    

Così facendo S.c.a.r.p.a ha ridotto del 32% le emissioni di CO2 legata alle plastiche di origine fossile usate per la produzione delle calzature. Per arrivare ad azzerarle invece, l’azienda si è affidata alle energie rinnovabili, che dovrebbero tagliare circa mille tonnellate di CO2. Tutto ciò sarà possibile grazie ad un impianto fotovoltaico da 700 megawatt installato sul tetto ad Asolo.

    

L’azienda che ha altrettanti progetti in ballo conta già 50 Re-shop tra Lombardia, Veneto e in Trentino-Alto Adige. Questi negozi accettano di raccogliere scarpe usate del modello Mojito, con l’obiettivo di arrivare a 15mila paia di scarpe. Dopo la loro raccolta verranno ne realizzate altrettante con gli stessi standard di qualità e sicurezza. Ma S.c.a.r.p.a. non si ferma solo in Italia perché ha addirittura negozi in Francia, Austria e Germania, fino a contare 250 negozi in tutta Europa.

    

È forse questo i Made in Italy che dovremmo finanziare, ovvero la filiera italiana sostenibile? Potrebbe essere questa, una possibilità di affermarci nuovamente in Europa e nel mondo?

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Gli imballaggi devono essere riutilizzati: il nuovo regolamento UE.

By : Aldo |Ottobre 26, 2023 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti, plasticfree, Rifiuti |Commenti disabilitati su Gli imballaggi devono essere riutilizzati: il nuovo regolamento UE.

Nonostante le nuove misure riguardanti i rifiuti, lo smaltimento e il riciclo, c’è ancora tanto da fare. Pertanto, l’Europa si è mossa nuovamente per proporre una nuova direttiva, che purtoppo non piace all’Italia.

   

Il quadro europeo

Ogni anno nell’UE si producono ben 2,2 miliardi di tonnellate di rifiuti di cui più di un quarto (il 27%) è rappresentato da rifiuti urbani. Viste le cifre è abbastanza semplice affermare che i paesi più ricchi tendono a generare più rifiuti per abitante. Questo è confermato dagli studi che hanno descritto una specifica condotta dei vari paesi membri. Per esempio, tra il 2018 e il 2021 i rifiuti urbani per abitante sono diminuiti a Malta, Cipro, Spagna e Romania. Mentre sono aumentati, toccando i picchi più alti in Austria, Lussemburgo, Danimarca e Belgio. I numeri più bassi sono stati registrati in Spagna, Lettonia, Croazia e Svezia.

    

Se invece si restringe il campo ai soli rifiuti da imballaggio, la situazione non sembra migliorare. Secondo le statistiche, nell’ultima decade la situazione è peggiorata passando da 66 milioni di tonnellate di rifiuti da imballaggi nel 2009, a 84 milioni nel 2021. Un aumento di grande rilevanza che ha culminato appunto, con la produzione di 188,7 kg di rifiuti di imballaggio all’anno per ogni europeo. Per quanto analizzato dai ricercatori, questa tendenza non diminuirà, anzi continuerà a crescere a dismisura fino a toccare i 209 kg per abitante nel 2030.

     

Le nuove misure

Per questo la Commissione ambiente del Parlamento europeo ha appena adottato, una nuova proposta di regolamento. Questa punta a una maggiore facilità d’uso del packaging, con lo scopo di ridurre tutti gli imballaggi inutili e i rifiuti prodotti del continente. La proposta è passata con 56 voti a favore, 23 contrari e 5 astensioni; l’Italia però non l’approva.  La proposta (Packaging and Packaging Waste Regulation) passerà alla votazione dell’Assemblea plenaria per poi iniziare i negoziati finali con il Consiglio Ue tra un mese.

    

La normativa nasce per porre uno stop drastico a questa avanzata; dunque, l’UE propone di puntare tutto sul riuso, il recupero e il riciclo. Le idee riportate sono varie e coprono diversi aspetti:

  • vietare la vendita di determinati sacchetti di plastica leggeri (inferiori a 15 micron);
  • ridurre in generale i rifiuti in plastica degli imballaggi;

Precisamente l’obiettivo è quello di apportare una riduzione graduale: 10% entro il 2030, 15% entro il 2035 e 20% entro il 2040. Arrivando anche a determinare delle percentuali minime del contenuto riciclato delle parti in plastica entro la fine del 2025. Si pensa anche alla possibilità di fissare obiettivi e criteri di sostenibilità anche per le bioplastiche. Ed infine si suggerisce di garantire un numero minimo di riutilizzo dei vari imballaggi per semplificare sempre più il processo di riuso.

    

Altri punti importanti della norma, riguardano ristoranti e caffè e i distributori finali di cibi e bevande d’asporto. Proprio loro dovranno garantire ai consumatori la possibilità di portarsi il proprio contenitore. Mentre si parla anche del divieto dell’uso di PFAs e delle sostanze chimiche eterne (forever chemicals), che possano essere a contatto con gli alimenti. C’è un punto anche per la raccolta differenziata: si chiede Paesi membri di differenziare al 90% dei vari materiali da imballaggio entro il 2029.

  

L’Italia contraria

Germania e Francia hanno accolto la proposta con grande entusiasmo poiché certi processi sono già in atto nelle loro città. Per esempio, nella prima, l’abitudine del riuso è comune e molto diffusa per prodotti quali latte, acqua e birra. Tuttavia, insieme, questi due stati hanno richiesto delle flessibilità in modo da adattarsi nel tempo e deroghe in base alle abitudini dei cittadini. Anche l’Austria esulta ma ricorda l’importanza di osservare le regole sulla sicurezza alimentare.

    

L’Italia invece non ci sta. Si oppone al voto, ricordando le risorse usate e gli sforzi fatti per puntare sul riciclo, di cui è leader europeo. Con le nuove norme invece, si ritroverebbe davanti a politiche di riuso che potrebbero penalizzare diversi settori, dalla ristorazione alla distribuzione. Il pensiero è condiviso dai vari ministeri a Confindustria, Coldiretti, Cia, Confagricoltura e Confcommercio.

Confcommercio ribadisce che la nuova proposta potrebbe danneggiare la filiera alimentare perché gli imballaggi sono fondamentali per

  • protezione e conservazione degli alimenti,
  • l’informazione al consumatore e la tracciabilità,
  • l’igiene dei prodotti.

Tutti questi punti sono fondamentali perché ne consentono anche la commercializzazione e l’export. Anche il ministro Gilberto Pichetto Fratin, ricorda che il modello vincente italiano deve essere valorizzato. Pertanto, afferma, che continuerà la lotta per difendere la filiera innovativa e virtuosa, che supera i target Ue con diversi anni di anticipo.

     

Dunque, in attesa dell’Assemblea plenaria prevista dal 20 al 23 novembre, l’Italia continuerà a difendere la qualità del suo made in Italy. Così continuerà ad opporsi per valorizzare anche gli sforzi e gli impegni (anche economici) fatti in questi anni.

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Smartphone e tablet: quale valore hanno una volta arrivati a fine vita?

By : Aldo |Ottobre 10, 2023 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti |Commenti disabilitati su Smartphone e tablet: quale valore hanno una volta arrivati a fine vita?

Il riciclo ci permette di ridurre il numero di rifiuti nelle discariche e di emissioni di CO2 nell’atmosfera. Oggi è un processo ancora più rilevante per l’ambiente e la sostenibilità, ma, nonostante ciò, non è ancora ben sviluppato in tutti i settori. Quello dei dispositivi elettronici sembra essere in difficoltà.
   

Smartphone e tablet

I dispositivi elettronici “smart” sono nelle nostre vite da un decennio e hanno rivoluzionato totalmente la quotidianità di tutti. Dove con l’aggettivo “smart” si intende con capacità di calcolo, memoria e connessione per l’impiego di funzioni avanzate tramite app e navigazione Internet.

  

Nell’arco di soli 8 anni, i numeri relativi agli smartphone sono duplicati: oggi se ne contano 6,8 miliardi, mentre nel 2016 erano “solo” 3,6 miliardi. Tuttavia, in generale, i telefoni mobili (“smart” e non) utilizzati oggi nel mondo sono 7,3 miliardi.  A questi numeri sarebbe opportuno aggiungere oltre 500 milioni di cosiddetti “feature phones”. Si tratta di telefoni cellulari di base, privi di sistemi operativi complessi che possono essere utilizzati semplicemente per l’utilizzo delle applicazioni.

  

Per quanto riguarda l’Italia, il 77% delle persone possiede un telefono e le stime sulle loro spese creano un ampio quadro dell’economia tecnologica.  Infatti, secondo il V Rapporto Censis-Auditel, nel 2021 nella Penisola sono stati pagati più di 7,8 miliardi di euro per l’acquisto di telefoni e apparecchiature telefoniche. Una spesa che rispetto al 2017 è aumentata del 92%: si tratta dell’incremento più elevato registrato in assoluto per le varie voci di spesa.

Tali cifre rendono l’idea sull’ importanza di questi dispositivi, che tuttavia, una volta obsoleti diventano oggetti e reperti storici nei nostri cassetti.

   
Il valore di uno smartphone

Attualmente abbiamo consorzi di riciclo per molteplici tipi di rifiuti come plastica, carta, vetro, alluminio. Questi sono molto sviluppati poiché correlati ad una grande quantità di prodotti che utilizziamo quotidianamente, creando un’importante mole di rifiuti. Proprio per questa ragione e viste le cifre riportate precedentemente, sarebbe opportuno promuovere maggiormente le procedure di riciclo e riuso degli smartphone. Poiché una volta esausti, non vengono valorizzati, come anche tablet e altri dispositivi elettronici.

  

Quello che non tutti sanno però è che quegli oggetti hanno elevato valore, soprattutto se introdotti in una realtà di economia circolare. Tale caratteristica deriva dagli elementi di cui sono composti, ossia materie prime critiche (o terre rare) come cobalto nella batteria, indio nello schermo. O ancora tantalio, gallio e metalli preziosi nel circuito stampato; sono tutti materiali che se recuperati possono essere impiegati nuovamente in altri prodotti. In questo modo si riducono i costi e le emissioni di produzione e si evita la continua estrazione mineraria. Per questo è fondamentale incentivare la riparazione e il riutilizzo di piccoli dispositivi elettronici, nonché il riciclo quando arrivano a fine vita.

   

Riciclo e Riuso

Attualmente gli europei potrebbero restituire smartphone usati per 700 milioni di pezzi, che oggi sono chiusi in un cassetto. Non a caso la Commissione Europa ha deciso di adottare una serie di raccomandazioni politiche per migliorare e incentivare la restituzione dei dispositivi. Tra loro sono inclusi telefoni cellulari, tablet, laptop usati e i relativi caricabatterie.

  

Il vademecum mira a supportare le autorità nazionali nel massimizzare riutilizzo, riparazione e recupero di questi piccoli dispositivi elettronici. Anche perché oggi il tasso di raccolta dei telefoni cellulari è oggi inferiore al 5% in Europa. Tra le raccomandazioni, Bruxelles chiede ai paesi membri di mettere proporre incentivi finanziari come sconti, buoni, sistemi di restituzione o premi monetari. In questo modo i cittadini europei sarebbero spinti a restituire i loro dispositivi usati alimentando un ciclo “green”. Senz’altro è necessario aumentare l’uso dei servizi postali per la restituzione e promuovere partnership. Per esempio, potrebbero collaborare i consorzi che si occupano della raccolta dei rifiuti e le realtà che preparano i dispositivi elettronici per il riuso.

   

Tutti questi consigli si concretizzano con la nascita di realtà in questo settore o con una maggiore sensibilizzazione sul tema. Dunque, ecco cosa possiamo fare con un dispositivo elettronico esausto:

  • venderlo su siti specializzati o negozi reali per prodotti elettronici di seconda mano;
  • convertirlo in una sveglia, un telecomando, una telecamera di sorveglianza, una cornice digitale e un localizzatore;
  • portarlo nei negozi di elettronica, che sono obbligati a ritirare i vecchi apparecchi;
  • rottamarlo per ricevere in cambio denaro, buoni regalo o altro;
  • donarlo durante le iniziative di beneficenza che vedono protagonisti i cellulari

Coem vediamo un telefono può avere mille funzionalità diverse, l’importante è che non venga buttato nel cestino.  Se propri vogliamo disfarci di tali prodotti è meglio portarli in un’isola ecologica che tratta i materiali RAEE (Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche). Altrimenti, se non conferiti negli appositi impianti di trattamento, diventano un pericolo per l’ambiente a causa dei veleni tossici che liberano.

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Dal sughero alla pelle vegana: il progetto della startup Lebiu.

By : Aldo |Ottobre 03, 2023 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti |Commenti disabilitati su Dal sughero alla pelle vegana: il progetto della startup Lebiu.

Il settore tessile ha bisogno di una grande innovazione legata alla sostenibilità. Negli ultimi anni sono state sviluppate le idee più disparate per poter rendere più “verde” il settore tessile, uno dei più inquinanti al mondo.  Ecco una novità.

 

Lebiu

La startup Lebiu nasce come una realtà sarda fondata da Fabio Molinas e Alessandro Sestini. I due soci derivano da settori diversi: il primo ha studiato industrial design e poi ha fatto esperienza in accademia in Spagna dove ha vissuto 11 anni. Il secondo invece è più specializzato nell’ambito finanziario e commerciale.

  

Insieme, oltre a fondare una startup, hanno creato un nuovo tessuto composto di scarti, ma non si tratta né di plastica, né di frutta. I due hanno pensato di usare gli sfridi di sughero per rivoluzionare il campo della moda. Borse, abbigliamento e accessori, sono composti da un nuovo materiale, derivato da scarti naturali e abbinato a elementi plant-based. Questa è la descrizione dei prodotti Lebiu.

 

Il sughero nel tessile

L’idea iniziale deriva dai ricordi d’infanzia di Molinas, originario di Caragianus in Gallura, il maggiore centro di produzione di tappi di sughero dell’isola.  In quelle terre la maggior parte delle famiglie ha lavorato nell’industria del sughero, quindi il materiale, ha determinato gran parte dell’infanzia del founder, il quale racconta:

ci sono cresciuto e fin da bambino ho sempre giocato con gli sfridi, la polvere generata da questa attività”

Nelle industrie, tonnellate di materiale di scarto viene incenerito poiché solo una piccola parte viene usata per la colmatazione dei tappi più pregiati. Pertanto, dopo 11 anni in Spagna, l’expat è tornano in Italia con un’importante formazione alle spalle, un’idea innovativa e la voglia di cambiare il mondo.

 

Il progetto e il materiale.

Il progetto nasce dalle conoscenze legate ai ricordi d’infanzia di Molinas e quelle riguardanti il settore tessile.  Infatti, afferma che gli sfridi sono in realtà una vera e propria farina che spesso veniva legata con la colla. Da qui si lavorava fino a renderla una sorta di plastilina da modellare dopo un passaggio in forno. Quindi l’idea c’era, il materiale pure e in abbondanza, mancava solo la realizzazione del nuovo prodotto che necessitava di fondi. A questo ci pensò la Commissione Europea che riconobbe un programma di incentivi dedicato alle industrie creative capaci di ridurre l’impatto ambientale dell’industria tessile.

 

Corskin

Il prodotto su cui converge tutto: una specie di simil pelle (al tocco) costituita da un alto contenuto di particelle di sughero. Queste ultime sono accompagnate da resine plant-based provenienti da coltivazioni OGM-Free e da campi non sottratti all’agricoltura per l’alimentazione. Si tratta di un tessuto resistente alla corrosione, impermeabile e personalizzabile con varie texture e finissaggi. In aggiunta, impedisce la formazione di muffe, per mezzo delle cere e dei tannini presenti nella biomassa, è durevole, non scolorisce ed è elastico. Infine, l’aumento dello spessore non incide sul suo peso, come invece avviene con altri materiali tecnici o naturali. L’unica pecca riguarda la lavorazione che attualmente elimina ogni profumo e odore ma la squadra è già alla ricerca di una soluzione.

Tale materiale nasce dalla combinazione di collanti alimentari che si impiegano per quelli conglomerati. Successivamente, grazie alla collaborazione con imprese specializzate in spalmati sintetici e tessili del nord Italia, la startup ha raggiunto il suo obiettivo, una struttura multistrato. Senza dubbio, Corskin è una valida alternativa che riduce l’impatto ambientale.

   

Nanocork

Attualmente è una linea secondaria dell’impresa. È un finissaggio naturale applicabile sui capi di aziende terze grazie a un processo di micronizzazione delle particelle di sughero e acqua. Questo materiale consente di risparmiare fino al 90% di acqua, prodotti chimici, ed energia e di distinguere il tessuto dagli altri. Per esempio, aumenta le prestazioni del capo in termini di isolamento termico e antistaticità ed ha un effetto naturalmente invecchiato. Quest’ultima caratteristica deriva dall’uso un pigmento naturale abbinato a sfridi, acqua e altri componenti, nebulizzato in ambiente controllato su tessuti.

Tali processi sono molto più sostenibili poiché generalmente la tintura di una maglietta comporta l’utilizzo di grandi quantità d’acqua: dai 60 ai 100 litri. Mentre con Nanocork per ogni chilo di vestiti ne basta solo un litro e mezzo.

   

Lebiu ha quindi creato dei prodotti che hanno un impatto ambientale è molto ridotto. Anche perchè si basa su una filiera di produzione controllata con certificazioni GRS (Global Recycled Standard) e USDA per il contenuto Bio-based. Valore che può variare a seconda dei prodotti, da un 45% a un 80%, con l’obiettivo di raggiungere il 95%. Con tali procedimenti e secondo le stime della società, per ogni metro di Corskin si evita l’immissione di 4,5 kg di CO2 in atmosfera.

  

Il prezzo è in linea con i tessuti di fascia medio-alta ma anche per la fascia premium degli alberghi e per l’arredamento.
Dunque, Lebiu è una realtà che ha fatto di una polvere di scarto, un tessuto di alto valore ma di basso impatto ambientale. Le vie per migliorare la nostra impronta sul pianeta sono migliaia, basta solo percorrerle nel modo e con i tempi più adeguati.

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Il sughero non è una materia infinita e noi non lo ricicliamo. Perchè?

By : Aldo |Settembre 07, 2023 |Arte sostenibile, Emissioni, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti, plasticfree |Commenti disabilitati su Il sughero non è una materia infinita e noi non lo ricicliamo. Perchè?

La raccolta differenziata e il corretto smaltimento dei materiali che usiamo quotidianamente, sono delle pratiche rilevanti per instaurare un’economia circolare.

Eppure, sembra che non siano stati studiati metodi con cui riutilizzare delle materie prime pregiate: una di queste è il sughero.

Cos’è il sughero e come si estrae

Il sughero è un tessuto secondario che riveste il fusto e le radici delle piante fanerogame come la quercia da sughero o “sughera” (Quercus suber). Si tratta di alberi alti oltre 20 m che hanno un diametro di 1,5 m e sono diffusi in maniera limitata nel Mediterraneo occidentale.  Si trovano anche in Africa settentrionale, Portogallo, Spagna e in Italia, principalmente in Sardegna dove viene coltivata e poi in Toscana, Lazio e Sicilia.

  

Il processo di estrazione del sughero è diviso in 2 azioni simili, svolte a distanza di 10 anni l’una dall’altra. Infatti, la raccolta inizia quando il tronco ha una circonferenza di 30-40 cm, quindi più o meno dopo i 20 anni di età. In questa prima fase, detta “demaschiatura” (per via del nome dato al sughero vergine, “maschio” o sugherone) si praticano delle incisioni.  Queste servono per staccare con cura le strisce di scorza, senza rovinare il fellogeno, dal quale si ricava il nuovo sughero.

  

Dopodiché, si genererà annualmente un anello e 10 anni dopo la demaschiatura lo spessore sarà di 3cm e l’albero sarà pronto per l’estrazione del sughero. La sua asportazione procede dalla base del tronco verso l’alto, poi viene tolto ogni 9-12 anni, così l’albero resta produttivo e vive fino a 150-180 anni.

Tale processo si svolge tra i primi di maggio e la fine di agosto, quando il materiale in esame si stacca più facilmente, lasciando sana la pianta.

   

Gli impieghi del sughero

Per le molteplici caratteristiche chimico-fisiche, il sughero può essere impiegato in vari ambiti. Tra le sue proprietà possiamo citare la resistenza al fuoco e all’usura, l’elasticità e l’isolamento (elettrico, termico e acustico). In aggiunta è inattaccabile da insetti e roditori ed è anche inodore, insapore, imputrescibile e non tossico.

    

Può essere usato in vari settori e in vari modi, per esempio;

  • È impiegato per la fabbricazione dei turaccioli: per la sua elasticità e di impermeabilità, grazie alle quali garantisce una chiusura ermetica delle bottiglie;
  • É utilizzato nell’industria farmaceutica e in quella cosmetica;
  • Lo troviamo ancora nella fabbricazione di solette e soprasuole per scarpe, rivestimenti isolanti, galleggianti per le reti da pesca, salvagenti, imballaggi per materiali fragili ecc;
  • Per la fabbricazione del linoleum e di agglomerati espansi, utili per l’isolamento termico e acustico degli ambienti.  

I tappi e il riciclo

I tappi di sughero sono dei prodotti di grande valore che potrebbero alimentare un grande settore dell’economia, incrementando un circolo di riciclo e riutilizzo rilevante. Solo in Italia ne vengono prodotti 1,2 miliardi all’anno e nel mondo sono almeno dieci volte tanti. Nonostante si tratti di un materiale recuperabile al 100% e non infinito, la loro vita finisce nel momento in cui viene stappata una bottiglia.

In più la crescita del settore vinicolo, determina un aumento delle pressioni sui querceti, dunque, diventa necessario trovare rapidamente un sostituto a tale materia. Per questa ragione il riciclo dei tappi sarebbe necessario, se non urgente, ma come impostarlo?

   

Sicuramente la raccolta specifica di tappi, per il singolo cittadino e le attività ristorative sarebbe un buon inizio per cambiare il trend negativo. Già con un’attività simile, potremmo incentivare il risparmio di risorse naturali ed energia, dando nuova vita al sughero.  Per esempio, si potrebbero creare nuovi tappi, realizzare strati isolanti e fonoassorbenti che migliorano le prestazioni energetiche degli edifici o suole e tacchi per le scarpe. Un esempio è il progetto Recooper a Bologna o del Comune di Tradate (Lombardia) che dal dicembre 2022 hanno attivato un punto di raccolta pubblico.

   

Una seconda opzione è quella di finanziare progetti di consorzi specializzati nel recupero e nel corretto smaltimento del sughero. O ancora ci si può indirizzare verso il fai da te, come nel caso colosso del sughero Amorim Cork. L’azienda ha preso accordi con 45 onlus sul territorio nazionale per raccogliere tappi e trasformarli in oggetti di interior design.

   

Nel mondo

Nel mondo invece sono state sviluppate altre iniziative per il riciclo del sughero in generale. Un caso è quello di Seondong a Seoul, che ha stipulato un accordo con un’impresa di costruzione di impianti sportivi specializzata nel di riciclo del sughero. L’accordo prevede la partecipazione di ben 45 commercianti di vino che raccoglieranno i tappi inviandoli all’impresa, per la creazione di passaggi pedonali vicino all’ufficio distrettuale.

   

Oppure in Portogallo nel 2005 ha posizionato i primi contenitori per la raccolta differenziata dei tappi di sughero, anche presso gli esercizi commerciali. Non a caso il portogallo è il più grande produttore di sughero, seguito da Spagna, Algeria e Italia.

   

Il riciclo e il riutilizzo sono azioni basilari per una vita e un futuro sostenibile. Senza una buona pratica di tali processi, potrebbe essere difficile mantenere la qualità di certe materie prime o garantire le stesse quantità nei prossimi anni. Proprio per questo dovremmo basarci sempre più su un’economia circolare, perchè serve a noi tanto quanto al pianeta.

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Imballaggi mono o multimateriale: qual è il packaging più sostenibile?

By : Aldo |Agosto 21, 2023 |Emissioni, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti |Commenti disabilitati su Imballaggi mono o multimateriale: qual è il packaging più sostenibile?

La sostenibilità dei packaging sembra migliorare giorno dopo giorno soprattutto grazie ai materiali scelti per la loro produzione.

In questo caso, il concetto di sostenibilità non riguarda solo la materia di cui è composto l’imballaggio, ma anche il suo possibile riciclo.

  

Riciclo e sostenibilità

Riciclare è un’azione fondamentale nell’ambito della sostenibilità e quindi dell’economia circolare; pertanto, un occhio di riguardo al tema è sempre ben accetto.

Dunque, parlando di packaging, si intende sostenibile un imballaggio monomateriale, poiché composto da una sola materia e quindi più facile da riciclare. Nonostante ciò, con i nuovi impianti e l’innovazione degli ultimi anni, anche dei prodotti multimateriali possono essere sostenibili.

Questo è possibile grazie allo studio di un prodotto (LCA), alle varie possibilità di riutilizzo e riciclo, ancor prima della sua produzione. Tale procedimento concerno lo studio dei materiali coinvolti, le loro combinazioni e i sistemi presenti per il loro riciclo.

   

Imballaggi monomateriale

Si definisce un imballaggio monomateriale, quando è composto da una sola materia. Questo tipo di prodotti si scompongono facilmente, pertanto sono si riciclano in modo semplice.

Solitamente gli imballaggi sono fatti di 3 materiali quali carta o cartone, vetro e plastica (di vario tipo). Tali materie sono usate in molteplici modi , ma una volta arrivati nel centro di riciclo, subiscono delle modifiche e dei processi diversi.

   

La carta: è composta da pasta di legno (cellulosa), per cui si tratta di un materiale facilmente riciclabile. Tuttavia, questa affermazione sarà vera solo nel caso in cui non venga trattata con certi prodotti quali rivestimenti, laminati, vernici o inchiostri particolari. In questo caso la carta non sarà riciclabile anche se monomateriale, poiché per riportarla allo stato naturale sono necessari processi chimici specifici o troppo dispendiosi.

    

Il vetro: è costituito totalmente da silice, ricavata dalla sabbia. Per questo è facile da riciclare e non a caso ha uno dei più alti tassi di riciclo tra gli imballaggi. Attraverso processi semplici, si consente la creazione di nuovi prodotti, senza perdere qualità o purezza del materiale. In questo modo il vetro risulta un tipo di imballaggio altamente sostenibile.

La plastica: essendo un polimero, può essere di vari tipi, con caratteristiche chimico-fisiche diverse che determinano un utilizzo differente. Tra i monomateriali correlati alla plastica abbiamo:

  • polipropilene (PP) un polimero termoplastico, dotato di grande durabilità, resistenza al calore e all’umidità oltre ad essere un materiale duttile. È diffuso come packaging per yogurt, tappi per bottiglie per bevande, flaconi per medicinali e pellicole.
  • polietilene (PE) è una resina termoplastica, non polare, parzialmente cristallina usata per prodotti leggeri ma resistenti. Per esempio, con il PE si creano sacchetti per la spesa e per il congelatore, pellicole termoretraibili, pluriball e bottiglie di plastica.
  • polietilene tereftalato (PET) è un materiale riciclabile al 100%, adatto al contatto alimentare. È il terzo esempio di monomateriale che può essere riciclato e trasformato in nuovi prodotti come abbigliamento, moquette o anche nuove bottiglie. Purtoppo però, scarseggiano le infrastrutture adeguate al suo riciclo che presenta un basso tasso.

Imballaggi multimateriale

Gli imballaggi multimateriale invece, sono tutti quei prodotti che sono composti da più di un materiale. In genere la scelta di un multimateriale ricade sulle caratteristiche del packaging, ossia una maggiore sicurezza alimentare, delle migliori caratteristiche fisiche ecc.

Infatti, un imballaggio di questo tipo spesso offre una maggiore resistenza, durata o funzionalità come quella dei poliaccoppiati. Un secondo tipo di multimateriale potrebbe essere una bottiglia di vetro con tappo in plastica ed etichetta di carta. In questo caso il riciclo avviene in maniera corretta se tutti i componenti vengono divisi in modo adeguato.

Nonostante ciò, a volte i multimateriali sono difficili da riciclare, poiché risulta complesso il processo di separazione dei loro componenti. Spesso risultano anche poco sostenibili visto che necessitano di processi chimici per tali procedure e per il riciclo

    

Un packaging sostenibile

Come precisato nei paragrafi precedenti però, anche i prodotti multimateriali possono essere sostenibili, se creati con opportuni materiali e con tecniche all’avanguardia.

Per esempio, ci sono tipi di cartone realizzati in combinazione con carta, plastica e alluminio che possono essere riciclate con processi specifici. Il processo prevede la separazione e il recupero di ogni materiale presente nel prodotto.

O ancora si possono usare dei materiali biodegradabili o compostabili che abbiano tutte le caratteristiche necessarie all’imballaggio, sostituendo così le classiche plastiche.

Infine, esistono nuove tecnologie che supportano il riciclo meccanico (il più sostenibile perchè privo di processi chimici), in un processo definito riciclaggio avanzato. Quest’ultimo se usato in modo complementare permette di dare una seconda vita agli imballaggi multimateriale, scomponendoli in materie prime.

In tal caso questa tecnologia consente il riuso di materie ancora in ottimo stato, quasi come materie vergini. Di conseguenza si riducono i rifiuti, le emissioni e si incrementa il mercato del riciclo, quindi l’economia circolare.

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La società italiana OVS si riconferma leadear nel Fashion Transparency Index.

By : Aldo |Luglio 23, 2023 |Emissioni, Home, i nostri figli andranno ad energia solare, menoconsumi, obiettivomeno rifiuti, plasticfree |Commenti disabilitati su La società italiana OVS si riconferma leadear nel Fashion Transparency Index.
OVS

Spesso si parla dei brand legati alla moda e ci si domanda quali siano i loro impegni nel campo della sostenibilità.

Tali quesiti sono cresciuti soprattutto con il passare degli anni e in relazione alle nuove inchieste nel campo tessile.

    

OVS primeggia nella moda

OVS la società d’abbigliamento italiana (dall’acronimo Organizzazione Vendite Speciali), primeggia per il terzo anno di fila nel Fashion Transparency Index.

Il brand si trova al primo posto, tra i 250 principali brand e retailer di moda al mondo, per la terza volta consecutiva. Il premio rappresenta in toto l’impegno della società nel campo della sostenibilità e quindi il suo investimento in un futuro migliore.

   

OVS si occupa dell’industria tessile e di tutto quello che concerne la loro produzione, sviluppando al contempo progetti anche nel sociale. Perciò ha raggiunto un grande risultato, valutato sulla base di molteplici criteri che spaziano dall’amministrazione alla produzione, fino alla comunicazione delle loro azioni.

    

Fashion Transparency Index 2023

Per quanto si parli di fast fashion, grandi merche e alta moda, bisogna soffermarsi sulla definizione del Fashion Transparency Index.

È un’indagine condotta annualmente su 250 fra i più grandi brand o rivenditori di moda e lusso, classificati in base alla loro trasparenza in vari temi. Tra questi i diritti umani, le politiche ambientali, l’impatto delle loro attività a partire dalla filiera, includenco 2 dei pilastri della sostenibilità: ambiente società.

Inoltre, si guarda anche alle pratiche di acquisto e al monitoraggio delle attività produttive per l’attivazione di azioni di miglioramento.

   

Nel 2023 OVS si posiziona al primo posto del Fashion Transparency Index con un punteggio dell’83% grazie ai miglioramenti in quattro dei cinque ambiti analizzati. Ovvero Policy and Commitments, riguardanti l’accessibilità delle policy aziendali rispetto la sostenibilità e la descrizione dei processi aziendali a supporto.

Mentre Governance, Know, show and fix, Spotlight issues valutano la chiarezza nel raccontare le azioni attivate in risposta ai fattori di rischio ambientali e sociali.

    

Inoltre, il gruppo ha incluso dati correlati alle emissioni di CO2 e all’utilizzo di acqua dei fornitori e dichiarato obiettivi destinati a supportare i lavoratori. Ha per giunta condiviso i piani di intervento con cui ha affrontato alcune criticità nella catena di fornitura.

L’indice descritto è un’idea del movimento Fashion Revolution di cui abbiamo già parlato nell’articolo sul “Bonus riparazione tessile”.

      

OVS e i suoi impegni

OVS è comunque molto impegnata nel campo sostenibile per via di molteplici progetti volti al miglioramento dell’azienda stessa e degli effetti che comporta all’ambiente. Non a caso da anni monitora tutti gli aspetti del suo business attraverso strumenti di tracciabilità e processi di controllo.

  

Per esempio, nel 2021 il gruppo ha pubblicato il piano di decarbonizzazione che prevede un’ulteriore riduzione del 46,2% di emissioni di CO2 entro il 2030. In aggiunta ha comunicato tutti i dati relativi alla performance ambientale e sociale della catena di fornitura.

   

É comprensibile quanto la trasparenza sia una un concetto fondamentale nella strategia di sostenibilità del gruppo, per accelerare il miglioramento anche dei suoi impatti. Se non altro è importante anche nei confronti della responsabilità che ha nei confronti degli stakeholder, visto anche la posizione da leader del mercato.

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Decreto Aree Idonee Rinnovabili: arriva la bozza e circolano i primi dati.

By : Aldo |Luglio 19, 2023 |Emissioni, Home, i nostri figli andranno ad energia solare, obiettivomeno emissioni, obiettivomeno rifiuti |Commenti disabilitati su Decreto Aree Idonee Rinnovabili: arriva la bozza e circolano i primi dati.

La transizione ecologica non è un’ipotesi, ma la soluzione, una delle più importanti per poter (almeno) rallentare il cambiamento climatico.

Al suo interno, la transizione energetica è ugualmente fondamentale, proprio per poter ridurre le emissioni di CO2 dall’atmosfera.

   

Il decreto

Giovedì 13 luglio è stato trasmesso il decreto alla valutazione della Conferenza Unificata. Si parla di un decreto atteso da più di un anno, necessario per portare avanti la transizione energetica italiana. L’annuncio è stato dato dal ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto Fratin, durante il Question Time alla Camera.

Il testo è rilevante per la determinazione di criteri e obiettivi in merito all’individuazione delle aree idonee all’installazione di impianti di produzione di energia rinnovabile. Inoltre, serve per quantificare l’ipotetica potenza che l’Italia potrebbe raggiungere grazie a maggiori fonti “green” attivando pratiche ferme da anni.

La bozza presenta anche il cosiddetto “burden sharing” ossia gli obiettivi minimi da raggiungere nel rispetto dell’obiettivo nazionale al 2030. Con l’impegno di tutti e l’aiuto delle nuove tecnologie si compiranno impegni fissati dal PNIEC derivanti dall’attuazione del pacchetto “Fit for 55”. Senz’altro si risponde anche ai requisiti del pacchetto “Repower UE”.

    

Pratiche e potenza

È previsto che le 19 regioni e le due Province autonome di Trento e Bolzano dovranno spartirsi gli 80 GW di nuova capacità rinnovabile. Questa è attesa per la fine del decennio e sarà ripartita in porzioni diverse a seconda delle caratteristiche di ogni regione.

Così facendo il piano aiuterà a velocizzare e semplificare la realizzazione dei grandi impianti fotovoltaici ed eolici in Italia. Per fare ciò, serve appunto un testo che spieghi come un’area possa essere considerata o meno “idonea” all’installazione di FER.

   

Per quanto riportato nel decreto ad ogni territorio è stata assegnata una potenza minima da raggiungere ogni anno dal 2023 al 2030. Precisamente la Sicilia dovrà installare 10,3 GW di rinnovabili, la Lombardia 8,6 GW, la Puglia 7,2 GW. Mentre l’Emilia-Romagna la Sardegna circa 6,2 GW a testa.

Nel conteggio annuale verranno presi in considerazione tutti i nuovi impianti a terra entrati in esercizio a partire dal 1° gennaio 2022.  In più si tiene conto della potenza nominale aggiuntiva derivante da interventi di rifacimento o ricostruzione integrale.  In caso dei nuovi impianti rinnovabili offshore si tiene conto invece solo del 40% della potenza nominale delle installazioni.

  

Sarà il Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica insieme al Gestore dei Servizi Energetici a monitorare tutte le operazioni del caso.

    

Termini e condizioni

Per il raggiungimento degli obiettivi, Regioni e Province autonome dovranno identificare aree idonee entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto. Tale procedimento dovrà necessariamente rispettare dei principi di minimizzazione degli impatti sull’ambiente, sul territorio, sul patrimonio culturale e sul paesaggio. Tutto ciò sarà possibile grazie all’adozione o integrazione di strumenti opportuni del governo del territorio.

Nel caso in cui questo non accadesse entro i limiti delle leggi, l’ente predisposto proporrà al Presidente del Consiglio, schemi di atti normativi di natura sostitutiva.

  

Le aree classificate idonee hanno dei requisiti che si  differenziano sulla base della fonte, della taglia e della tipologia di impianto, scelto dall’amministrazione. Nonostante ciò, per individuare le aree adeguate, gli enti burocratici possono usare la piattaforma digitale, integrata dai dati sull’uso del suolo agricolo desumibili dal SIAN.

Lo schema del decreto presenta una classificazione delle aree: superfici e aree idonee, superfici e aree non idonee, e aree soggette alla disciplina ordinaria. Di certo una zona definita idonea per il fotovoltaico potrebbe non esserlo per l’eolico, per il quale ci sono altri criteri di scelta.

     

Di seguito sono riportate quelle che sono considerate superfici e aree idonee secondo il DM:

  • siti dove risultano già installati impianti rinnovabili che sfruttano la stessa fonte e i cui lavori di riqualifica, ristrutturazione, potenziamento ecc. Inoltre, non che devono comportare una variazione dell’area occupata superiore al 20% (fotovoltaico escluso);
  • aree oggetto di bonifica individuate ai sensi del Titolo V;
  • cave e miniere abbandonate o in condizioni di degrado ambientale o porzioni delle stesse non suscettibili di ulteriore sfruttamento;
  • siti e gli impianti del gruppo Ferrovie dello Stato italiane, dei gestori di infrastrutture ferroviarie e delle società concessionarie autostradali. Analogamente a quelli delle società di gestione aeroportuale all’interno dei sedimi aeroportuali;
  • aree non ricomprese nel perimetro dei beni sottoposti a tutela e che non ricadono nella fascia di rispetto. Quindi 3 km dal perimetro dei beni sottoposti, 500 metri per gli impianti fotovoltaici;
  • esclusivamente per gli impianti fotovoltaici e di produzione di biometano, le aree classificate agricole, racchiuse in un perimetro i cui punti distano non più di 500 metri da zone a destinazione industriale, artigianale e commerciale, compresi SIN, cave e miniere. Le aree interne agli impianti industriali e agli stabilimenti e quelle classificate agricole racchiuse in un perimetro i cui punti distano non più di 500 metri dal medesimo impianto o stabilimento; le aree adiacenti alla rete autostradale entro una distanza non superiore a 300 metri;
  • i beni del demanio militare in uso al Ministero della Difesa, dell’Interno, della Giustizia (e uffici giudiziari), e da quello dell’Economia e delle Finanze;
  • le superfici degli edifici, delle strutture e dei manufatti su cui vengono realizzati impianti fotovoltaici rientranti nel regime di manutenzione ordinaria.

Sarà questo il passo che serve all’Italia per cambiare rotta? Sicuramente è un programma di grande spessore che deve entrare in vigore il prima possibile per iniziare un nuovo percorso verso un futuro migliore.

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La Convenzione di Honk Kong entra in vigore: al via il riciclo delle navi.

By : Aldo |Luglio 04, 2023 |Emissioni, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti, plasticfree, Rifiuti |Commenti disabilitati su La Convenzione di Honk Kong entra in vigore: al via il riciclo delle navi.

L’economia circolare si basa su un ciclo continuo che considera i rifiuti come risorse e materie con le quali dar vita a nuovi prodotti.

Al giorno d’oggi possiamo approssimativamente riciclare tutto quello che creiamo e dal 27 giugno anche le navi attraverso un nuovo regolamento.

La convenzione di Hong Kong

La Convenzione di Hong Kong venne approvata nel 2009 con la descrizione di obiettivi e criteri ben precisi.

Lo scopo della convenzione era quello di garantire che il riciclo delle navi non presentasse più rischi inutili per la salute e la sicurezza umana e ambientale.

Si tratta dunque di un regolamento volto alla sostenibilità che  abbraccia il concetto del ciclo “dalla culla alla tomba”, senza arrecare ulteriori danni al pianeta.

Tuttavia, la norma è entrata in vigore solo dopo 16 anni, poiché sono stati raggiunti tutti e tre i requisiti richiesti dall’IMO (Organizzazione marittima internazionale):

  • non meno di 15 Stati;
  • non meno del 40% del trasporto mercantile mondiale per stazza lorda;
  • capacità di riciclaggio delle navi non inferiore al 3% del tonnellaggio lordo della marina mercantile combinata degli Stati summenzionati.   

L’entrata in vigore e i cambiamenti

Il 27 giugno 2023, la convenzione ha raggiunto il numero minimo di adesioni grazie alla firma di Liberia e Bangladesh.

Oltre a loro avevano già approvato la convenzione Belgio, Repubblica del Congo, Croazia, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Ghana, India, Giappone, Regno dei Paesi Bassi, Norvegia. E ancora Panama, Portogallo, São Tomé e Principe, Serbia, Spagna, Türkiye, Lussemburgo e Malta.

Con le ultime due firme, il settore di riciclo delle navi è cambiato per sempre; sarà più regolamentato quindi sicuro a livello ambientale e umano.

Oggi gli stati contraenti sono 22, rappresentando circa il 45,81% del tonnellaggio lordo, mentre il volume annuale combinato di riciclo ammonta a 23.848.453 tonnellate.Tale cifra è pari al 3,31% del volume richiesto, quindi si prospetta un’ottima partenza, prevista 24 mesi dopo la firma degli ultimi due stati.

La convenzione attribuisce responsabilità e obblighi a tutte le nazioni contraenti e nello specifico a molteplici figure e settori del campo navale.

Tra questi gli armatori, i cantieri navali, gli impianti di riciclo delle navi, gli stati di bandiera, quelli di approdo e quelli dove avviene il riciclo.

A questo punto le navi una volta finita la loro vita operativa, dovranno presentare a bordo un inventario dei materiali pericolosi contenuti in essa.

Gli impianti autorizzati, dovranno fornire un piano di riciclo specifico per ogni imbarcazione e i governi dovranno rispettare l’accordo sugli impatti sotto la loro giurisdizione.

La normativa entrerà in vigore concretamente il 26 giugno 2025.

Bangladesh

Il Bangladesh è uno dei paesi con la maggiore capacità di riciclo, poiché è lo stato in cui vengono portate più navi a fine vita.

Solo nel 2019 sono arrivate a rottamazione ben 674 navi commerciali oceaniche e unità offshore. Di queste, ben 469 sono state demolite solamente su tre spiagge tra il Bangladesh, l’India e il Pakistan.

Per questo il Bangladesh è parte del progetto SENSREC dell’IMO (finanziato dalla Norvegia per 4 milioni di dollari dal 2015).

Il programma ha lo scopo di coltivare un forte senso di proprietà nel riciclaggio ecologico delle navi in Banglades. Sono stati inclusi i lavoratori, i proprietari di cantieri e parti interessate, per sviluppare una comprensione completa delle sfide e delle opportunità all’interno del settore.

Di questo passo, con iniziative, norme, obblighi e finanziamenti, anche i paesi in via di sviluppo possono trovare il loro posto nella transizione ecologica. 

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