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Greenpeace indaga sui resi online: la non sostenibilità dei famosi fashion brand.

By : Aldo |Febbraio 13, 2024 |Arte sostenibile, Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Greenpeace indaga sui resi online: la non sostenibilità dei famosi fashion brand.

Sappiamo che il settore tessile è uno dei più inquinanti sul pianeta perché non impiega solo tessuti, ma quantità ingenti di acqua e suolo ed emette tantissima CO2. Greenpeace ha deciso di indagare su questo problema per dimostrare i danni che il fast fashion arreca al mondo.

 

Fast fashion

Da tempo ormai si può fare shopping direttamente da casa, con qualche click, senza uscire o prendere la macchina. Sembra tutto più semplice e poi che prezzi! E se il capo non fosse della taglia giusta si potrebbe fare il reso a pochi euro, a volte anche gratuitamente: cosa c’è meglio di così?
Nulla.

Esattamente nulla perché il fast fashion, un trend in drastico aumento negli ultimi anni sta giovando ai nostri portafogli ma non al nostro pianeta. Questo perché si tratta di merce di bassa qualità, solitamente fatta di fibre plastiche, che durano poco prima di sgualcirsi e costano relativamente poco. Il fast fashion è figlio di una società consumista che non riesce (o almeno ancora non lo ha fatto) a capire che un’economia circolare sarebbe la soluzione perfetta ai grandi problemi del momento. Che siano la crisi economica o climatica.

   

Secondo le stime attuali, a livello globale la produzione e il consumo di prodotti tessili sono raddoppiati dal 2000 al 2015 e potrebbero triplicare entro il 2030. Questo determina un tasso minimo di riciclo, non a caso solo l’1% dei vestiti viene creato da abiti vecchi e il 3% è circolare. Infatti, ogni secondo un camion pieno di capi d’abbigliamento finisce in discarica o inceneritore.

   

L’indagine di Greenpeace

Per chiarire e dimostrare con dati certi l’impatto di questo settore, Greenpeace Italia in collaborazione con Report ha svolto un’indagine non solo sul consumo ma sui resi online dei vestiti. Come detto in precedenza, pochi click bastano per comprare e fare resi gratuiti ma il pianeta paga un alto prezzo per queste attività. Lo afferma una ricerca del 2020 pubblicata su Nature, in cui si parlava del crescente impatto ecologico del fast fashion:

  • quasi il 18% delle emissioni globali di CO2 prodotte dall’industria manifatturiera;
  • milioni di litri di acqua utilizzata per lavorare cotone e tessuti;
  • almeno 100 milioni di rifiuti tessili gettati via ogni anno. 

Ora invece il focus è sui resi e quindi sui viaggi infiniti che gli indumenti fanno, una volta rispediti al mittente. I risultati ottenuti dall’inchiesta sono a dir poco assurdi e sottolineano come questa pratica veloce e diffusa stia compromettendo la salute della Terra.

   

L’indagine durata 2 mesi si è basata su 24 capi acquistati online da grandi marchi quali Amazon, Temu, Zalando, Zara, H&M, Ovs, Shein e Asos e poi rispediti. Prima di rimandarli al mittente però, sono stati inseriti dei piccoli air tag (localizzatori GPS) per tracciarne gli spostamenti. In questo modo, i due gruppi sono riusciti a creare delle vere e proprie mappe dei resi, ma soprattutto sono riusciti a calcolare con precisioni le emissioni derivate da tali movimenti.

    

Gli abiti, quindi, hanno transitato più volte lungo tutto l’asse della nostra penisola, poi alcuni sono finiti in Europa e altri sono tornati direttamente in Cina. Questo perché gli stessi 24 capi sono stati venduti e rivenduti quasi 40 volte e resi 29 volte: ancora oggi 14 dei 24 vestiti non sono stati rivenduti. Questo giro intorno al mondo è durato ben 100 mila chilometri tra 13 Paesi europei e Cina. In media ogni pacco ha viaggiato, per consegna e reso, quasi 4500 chilometri: il tragitto più breve è stato di 1.147 chilometri, il più lungo di circa 10.300. Addirittura, sette capi che in totale hanno volato complessivamente per oltre 34 mila chilometri.

     

Le emissioni

I dati raccolti in chilometri sono stati trasformati in emissioni di CO2 grazie alla startup INDACO2, la quale ha determinato l’impatto ambientale di tutti i viaggi. Ovviamente tale valutazione tiene conto anche del packaging non solo del viaggio.  Quindi l’impatto ambientale medio del trasporto di ogni ordine e reso corrisponde a 2,78 kg di CO2e, di cui il 16% di packaging. Tali dati determinano un aumento di circa il 24% delle emissioni per pacco.

     

L’indagine di Greenpeace e Report conferma come la velocità nell’effettuare i resi in questo settore determiino un elevato impatto sul Pianeta. Nello specifico in Europa, il consumo di prodotti tessili sia il:

  • 4° settore per impatti su ambiente e clima,
  • 3° settore per consumo d’acqua e di suolo.

Sarebbero necessarie quindi delle leggi o delle normative per arginare o limitare tali operazioni o per regolamentare il transito dei resi. O ancor di più la distruzione di capi ancora utilizzabili o riciclabili. Perché una pratica che incentiva il reso attraverso i bassi prezzi, favorisce anche l’aumento dei cambiamenti climatici.

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Con Acer i-Seed si monitora la salute del suolo.

By : Aldo |Febbraio 12, 2024 |Arte sostenibile, Home |Commenti disabilitati su Con Acer i-Seed si monitora la salute del suolo.

Sebbene l’uomo costruisca da millenni edifici e costruzioni di ogni tipo, sembra non aver chiaro il fatto che il suolo è una risorsa limitata e scarsa. È fondamentale capire come si può proteggere questa matrice che letteralmente “sorregge” l’intera umanità e con lei tutti gli esseri viventi.

    

La risorsa suolo

Il suolo è una risorsa limitata e non rinnovabile quindi da salvaguardare in tutti i suoi aspetti per evitare di perderla totalmente prima del dovuto. Il suolo ha delle caratteristiche uniche e delle funzioni molto importanti per ogni singolo essere vivente; dunque, è necessario proteggerne la sua salute e limitare il suo utilizzo. O almeno sarebbe opportuno conoscere il terreno che c’è sotto i nostri piedi e imparare cosa possiamo e non possiamo fare con tale risorsa.

    

Come prima cosa è fondamentale capire che si tratta di una matrice che impiega tantissimo tempo per formarsi: si parla di 1000 anni per 3 cm di terra. Già i tempi necessari per la sua crescita dimostrano le fragilità della risorsa e fanno riflettere sulla velocità umana nel depauperarla. La continua costruzione di edifici causati dalla maggiore urbanizzazione del mondo, risulta come una minaccia per il suolo e per tutte le sue funzioni. Tra le più importanti, cattura il carbonio dall’atmosfera, previene il dissesto idrogeologico, fornisce nutrienti alle piante e conserva la biodiversità. Quelli appena citati sono servizi fondamentali e indispensabili per tutti e molto vantaggiosi per il settore agricolo, che in primis dovrebbe tutelare la matrice principale delle sue attività.

   

Tuttavia, il Rapporto presentato lo scorso 30 novembre 2023 da “Re Soil Foundation” descrive un andamento poco sostenibile delle nostre attività. Nel testo, infatti, si sottolinea come solo il 30% degli agricoltori fa analisi del suolo annualmente in Italia.  Pertanto, la gestione dei terreni e delle operazioni sono approssimate e riguardano principalmente la monocultura.

    

Il monitoraggio

Le funzioni e la salute del suolo hanno un’enorme rilevanza che non possono essere trascurate. Di solito per tutelare tali processi e le condizioni di un habitat o di un ecosistema è necessario svolgere dei monitoraggi di vario tipo. Con tali operazioni si possono misurare molteplici valori ma anche individuare possibili danni alla risorsa, in modo da trovare la migliore soluzione e proteggerla.

   

Le tecniche di monitoraggio sono tante e diverse a seconda della condizione da analizzare o l’approccio scelto e con il tempo sono sempre più avanzate. Grazie all’innovazione, infatti, i monitoraggi sono sempre più precisi e specifici e si svolgono con tecnologie sofisticate e attente l’ambiente che analizzano. Un esempio in questo senso è progetto dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova che ha creato dei robot ispirati alle piante. Si tratta di un prototipo di seme artificiale in grado di rilevare e comunicare alcuni inquinanti nel suolo, per poi decomporsi a fine vita. L’invenzione si chiama Acer i-Seed ed è stata creata in collaborazione con il Bioinspired Soft Robotics Laboratory e il Leibniz Institute for New Materials.

   

Acer i-Seed

Il progetto guidato dall’IIT di Genova è una novità spettacolare che consente di monitorare il suolo attraverso modalità innovative. L’idea è di Barbara Mazzolai, biologa marina, con dottorato in ingegneria degli ecosistemi, team leader all’IIT dal 2009. L’obiettivo del programma europeo è quello di creare robot incentrati su un concetto fondamentale: il ciclo della vita. Quindi si tratta di sistemi che usano l’energia dell’ambiente, sono completamente sicuri, traggono ispirazione dagli esseri viventi e sono riutilizzabili.

    

Infatti, Acer i-Seed è infatti un sistema ispirato ai semi rilasciati da una pianta, che cambiano forma e si muovono autonomamente nel suolo. Si tratta di un robot “soffice”, idealizzato seguendo uno studio istologico dei semi, creati artificialmente. Successivamente è stato stampato il modello in 3D del seme che vola attraverso nanoparticelle sensibili alla variazione di temperatura. Quest’ultime inoltre, emettono fluorescenza quando vengono stimolati da un laser con una determinata lunghezza d’onda, nel nostro caso l’infrarosso.

   

Di seguito la fluorescenza viene letta dai sistemi di telerilevamento a bordo di un drone e a seconda dell’intensità si determinano le concentrazioni dei parametri scelti. Tra questi

  • la temperatura;
  • l’umidità;
  • il mercurio alimentare;
  • l’anidride carbonica.

Tale studio è parte di un programma continuo e a basso costo; dunque, potrebbe essere usato anche in paesi che non possono permettersi delle tecnologie tradizionali. Sebbene sia in fase sperimentale, il gruppo di ricerca ha già de nuovi obiettivi, tra cui quello di integrare anche altri tipi di semi, oltre a quelli di acero. Così facendo si avrebbe una visione più completa del suolo di un ambiente con molteplici specie vegetali per poi individuare le aree da bonificare. La meta più importante è invece la riforestazione di zone remote, per mezzo dei robot.

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Redox Flow desalinizza l’acqua producendo energia

By : Aldo |Febbraio 08, 2024 |Acqua, Arte sostenibile, Home |Commenti disabilitati su Redox Flow desalinizza l’acqua producendo energia

La risorsa più preziosa al mondo è probabilmente l’acqua, di cui ha bisogno ogni singolo individuo esistente sulla Terra anche se in modalità diverse. Ma ancora più importante per noi umani è l’acqua potabile; una percentuale bassissima che non soddisfa il fabbisogno di tutti. Per questo le nuove ricerche propongono nuovi metodi per produrne maggiori quantità.

   

Cosa succede nel mondo

L’acqua come sappiamo bene è un bene di prima necessità dell’intero mondo e come tale è una risorsa preziosa. Col passare del tempo però, cresce la sua importanza e diminuisce la sua quantità nel pianeta e questo fenomeno sta allarmando tutti. Infatti, secondo l’OMS, entro il 2025 metà della popolazione mondiale vivrà in aree sottoposte a stress idrico, per colpa della siccità che aumenta giorno dopo giorno.

   

A tal proposito, sempre più gruppi di ricerca, stanno studiando modi alternativi per desalinizzare l’acqua e quindi impiegarla nel settore agricolo o renderla potabile. Così facendo si potrebbero affrontare le sfide determinate dai cambiamenti climatici, soddisfacendo la domanda crescente della Terra. Si parla quindi di desalinizzazione poiché il 97,5% dell’acqua sulla Terra è salata, ossia 1354,8 milioni di chilometri cubi, divisa tra oceani, mari e bacini. Mentre solo il 2,5% dell’acqua sul nostro pianeta è dolce, pari a 35,2 milioni di chilometri cubi di cui solo l’1% è potabile. Pertanto, sono sempre più le iniziative di ricerca in questo settore, la maggior parte delle quali si basa sulla desalinizzazione dell’acqua di mare.

 

La desalinizzazione

Questa tecnica è in uso da anni e impiegata regolarmente in 183 Paesi nel mondo. La metà degli impianti dissalatori globali si trova nel Medio Oriente, mentre in Europa spicca la spagna che nel 2021 ne contava circa 765. È un meccanismo così importante che in Arabia Saudita ricava da questi sistemi il 50% della propria acqua potabile.

    

Di preciso, oggi esistono due principali metodi di desalinizzazione dell’acqua:

  • la distillazione solare multistadio, un processo in cui l’acqua marina entra in scomparti in sequenza ed evapora per mezzo di vari stadi rilasciando sale;
  • l’osmosi inversa, meccanismo alimentato dal calore solare, per cui il sale si accumula rapidamente all’interno del dispositivo creando cristalli. Purtoppo questo processo determina un’otturazione del sistema, dunque è più costoso a livello economico, energetico e tecnologico rispetto ad altri.
  • lo scambio ionico, processo molto complesso, basato sulla rimozione degli ioni per mezzo di speciali resine.

Nonostante ciò, la ricerca avanza e di recente è stato pubblicato uno studio di un gruppo di ricerca dei New York che sembra aver trovato un’alternativa ancora più sostenibile. Si tratta di un meccanismo che, oltre a desalinizzare l’acqua marina, produce allo stesso tempo energia elettrica immagazzinabile in batterie.

 

Redox Flow

Redox Flow è il nome del processo ideato dai ricercatori della Tandon School of Engineering, New York University. Un meccanismo più economico degli altri caratterizzato da un’elevata efficienza di desalinizzazione. Il nome deriva dalle batterie a flusso Redox, una nuova tecnica elettrochimica che consente di trasformare l’acqua salata in acqua potabile e non solo. Infatti, permette di immagazzinare l’energia rinnovabile prodotta dal flusso dell’acqua, il tutto con prezzi accessibili, quindi anche per le regioni più in difficoltà.

   

Lo studio dimostra come il meccanismo messo a punto, possa diminuire il tasso di rimozione del sale di circa il 20%, così facendo riduce la domanda di energia. Sebbene sia stato applicato solo su bassa scala, risulta una valida alternativa ai metodi in precedenza elencati. Per impiegarlo su larga scala invece sarebbe necessario ottimizzare le membrane ioniche che filtrano l’acqua salata e la forza usata per la separazione. L’innovazione si trova proprio in questa fase. Perché è possibile usare di energia elettrica come forza spingente, ma anche sfruttare l’energia chimica sprigionata in modo spontaneo dal mescolamento di due soluzioni e convertita in energia elettrica. Questa poi può essere catturata e trasferita agli elettrodi della batteria ricaricabile.

    

Il professore che guida il gruppo, André Taylor, professore di ingegneria chimica e biomolecolare, è riuscito ad ottimizzare il processo totale. Di fatti, il sistema può desalinizzare fino a 700 litro/ora m2, cifre elevatissime rispetto ai 15 litro/ora dell’osmosi inversa. Lo stesso, nello studio pubblicato su Cell Reports Physical Science, suggerisce come un sistema del genere possa essere un’importante soluzione a due domande fondamentali, ossia quella dell’energia e dell’acqua potabile.

     

Se impiegata in aree remote, in regioni povere o in stati di forte siccità, un’innovazione del genere potrebbe diventare un vero e proprio game changer. Soprattutto perché non inficia la conservazione ambientale e supporta l’integrazione energie rinnovabili, come solare ed eolico. In particolare, l’utilizzo di queste fonti intermittenti fornirebbe un’energia immagazzinata nelle batterie (sopra citate) rilasciata su richiesta. Il sistema porterebbe si, un nuovo quantitativo d’acqua potabile, ma incentiverebbe la transizione ecologia riducendo la dipendenza dalle reti elettriche convenzionali.

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Crediti di plastica: Greenwashing o azione concreta?

By : Aldo |Febbraio 06, 2024 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti |Commenti disabilitati su Crediti di plastica: Greenwashing o azione concreta?

La quantità di plastica nel mondo cresce in maniera spropositata e rappresenta sempre più un problema globale a cui mettere un freno. Negli anni sono stati promossi progetti di ogni tipo, investimenti per la ricerca e soluzioni per le aziende. Tuttavia, sembra che la problematica continui ad aumentare e che certe azioni non abbiano l’impatto desiderato.

 

Nuove frontiere

Ad oggi il mondo è invaso dalla plastica, che continua ad aumentare in modo spropositato senza un accenno di rallentamento. Ogni anno 11 milioni di tonnellate di plastica finiscono negli oceani e tra i 75 e i 199 milioni di tonnellate hanno già raggiunto i loro ecosistemi. Questo fenomeno si ripercuote anche sulla terra ferma e sulla nostra salute. Pertanto tale tendenza preoccupa tutti e soprattutto gli studiosi che hanno messo a punto, negli anni, soluzioni e progetti per limitarne la dispersione nell’ambiente. Riciclo, riuso, nuovi polimeri, la biodegradabilità, tutto è volto a ridurre la produzione e il consumo di plastica, se non fosse che certe soluzioni sono di dubbia efficienza.

   

Infatti, durante i negoziati del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente a Nairobi (svolti dal 13 al 19 novembre) è stata introdotta una nuova opzione. Quest’ultima non convince tutti anzi, crea un forte divario tra i suoi supporter e gli scettici. Si parla dei crediti di plastica, simili a quelli di carbonio, sono stati introdotti come una nuova soluzione per ridurre l’inquinamento dei polimeri onnipresenti. Ci sono molti aspetti che fanno dubitare della loro efficienza nella diminuzione dell’inquinamento o almeno della loro validità in questo campo. Tuttavia, sono state già autorizzate le società addette alla valutazione, al monitoraggio e alla certificazione di tali crediti. Tra queste Plastic Bank, Plastic Credit Exchange e Verra già già finite negli scandali per crediti di carbonio “spazzatura”.

 

I crediti di plastica

Ma cosa sono effettivamente i crediti di plastica e come funzionerà questo nuovo mercato? I crediti di plastica vengono utilizzati dalle imprese per finanziare la rimozione della plastica e contribuire a impedirne il raggiungimento dell’ambiente. Addirittura, le aziende possono unire tale attività agli impegni che attuano per ridurre l’inquinamento nella filiera, così da raggiungere la “neutralità plastica”.

    

Di preciso, le aziende possono guadagnano crediti collaborando con enti impegnati nella raccolta di plastica (per proprio conto). Tali organizzazioni, sono generalmente formate da volontari o comunque da cittadini di aree costiere, principalmente dei paesi in via di sviluppo. Seguendo tale meccanismo sarebbe più semplice monitorare i progetti finanziati e l’effettivo cambiamento, al contrario dei crediti di carbonio. Infatti, secondo Clean Hub (società di consulenza per aziende), monitoraggio, controllo e recupero della plastica sono processi tangibili e tracciabili.

   

Pro, contro e greenwashing

Come detto in precedenza, questi movimenti non sono ritenuti validi da tutti, il panorama mondiale è diviso tra i pro e i contro. Chi li promuove, afferma siano molto più tracciabili dei crediti di carbonio e che possano contribuire realmente a ridurre il rilascio in ambiente di plastica. C’è chi invece crede si tratta dell’ennesima forma di greenwashing e dunque che non siano efficienti al contrario possono rallentare il percorso di diminuzione della plastica.

   

Le prime opinioni sono rafforzate dal fatto che questa soluzione finanziaria potrebbe trovarsi al cuore del prossimo Trattato globale sulla plastica delle Nazioni Unite. La considerazione di una tale iniziativa da parte di un ente così importante a livello globale fa pensare si tratti di una vera e propria soluzione. Nonostante ciò, si riscontrano dei movimenti poco chiari e delle dinamiche particolari che fanno dubitare della loro efficacia nel mondo.

 

Per prima cosa sono attività promosse maggiormente nei paesi a basso reddito, dove non esistono programmi di gestione dei rifiuti né tutele sul lavoro. In questo modo si evitano dei punti cardine della sostenibilità che riguarda anche l’aspetto sociale e umano, al quale si devono garantire diritti fondamentali. Così facendo, la pratica potrebbe trasformarsi in un’operazione di greenwashing, soprattutto perché non esistono ancora degli standard globali. Ovvero, non sono stati definiti regolamenti che disciplinino l’uso di questi crediti plastica o ne garantiscano l’affidabilità. In tal modo, le aziende non saranno impegnate concretamente nel ridurre la produzione di plastica, poiché la soluzione riguarda solo la parte finale della filiera. Pertanto, saranno in grado di continuare a produrla coprendosi con campagne pubblicitarie illusorie.

   

Per ora le indagini non presentano una grande positività dell’iniziativa. Di certo se fossero regolamentate e monitorate nei modi opportuni, queste attività potrebbero aiutare (in parte) a risolvere il problema.

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Farina di grillo: la prima azienda italiana autorizzata alla produzione e al commercio.

By : Aldo |Febbraio 04, 2024 |Arte sostenibile, Home |Commenti disabilitati su Farina di grillo: la prima azienda italiana autorizzata alla produzione e al commercio.

La fame nel mondo, le nuove diete, la sostenibilità hanno portato alla ricerca di nuove soluzioni regolare la crescita demografica del pianeta. Le prime innovazioni su questo fronte stanno arrivando ma non tutte sono accolte positivamente dalle popolazioni mondiali. Una delle più discusse è legata all’utilizzo di insetti nell’alimentazione.

Le proteine del futuro

Da anni si discute di come affrontare la crescita demografica e quindi di come sfamare 8 milioni di persone sulla terra. Soprattutto, si deve ragionare in funzione di uno stock limitato di risorse e quindi con la necessità di massimizzare la resa. Per questa ragione si parla ormai da anni, di un futuro in cui i popoli si alimentano con particolari prodotti, come per esempio gli insetti.

  

La scelta di introdurre gli insetti non è recente per alcune popolazioni del mondo ma di certo è una novità per le popolazioni “occidentali”. A proposito, la FAO afferma che si consumano già 1900 specie diverse di insetti, quindi i passi che stiamo muovendo sono effettivamente una novità solo per alcuni.  Nonostante ciò, molti non condividono o si chiedono ancora le ragioni per cui procedere con la consumazione dei nuovi alimenti e i loro derivati.

   

Gli insetti possono piacere o meno, ma è scientificamente provato che siano ricchi di proteine e nutrienti e cosa più importante: sono tantissimi sul pianeta. Inoltre, il loro allevamento non produce neanche l’1% di emissioni e dunque sono un’alternativa ideale alla dieta tradizionale. La loro introduzione nel settore alimentare contribuirebbe positivamente ad un ambiente più sostenibile e sano. Precisamente, potrebbero contrastare problemi quali:

  • l’aumento del costo delle proteine animali;
  • l’insicurezza alimentare;
  • le pressioni ambientali;
  • la crescita demografica;
  • l’aumento della domanda di proteine presso le classi medie.

In Europa

In Europa è entrato in vigore il primo regolamento 258/97, relativo ai “nuovi alimenti” il 15 maggio 1997. Con tale norma si definisce qualsiasi prodotto alimentare che non sia stato consumato ampiamente nell’UE. Ma solo di recente (1° giugno 2021), la Commissione Europea ha adottato il regolamento sui “nuovi alimenti”. Tale passo è stato possibile grazie a una scrupolosa valutazione scientifica (effettuata dall’EFSA) sulla sicurezza alimentare di questi cibi. Dopodiché è stata approvata la loro introduzione sul mercato UE.

     

È bene ricordare che, parlando di insetti, l’UE, ha approvato l’introduzione del tenebrione mugnaio giallo. L’insetto è stato valutato dall’EFSA ed è soggetto alle norme UE che disciplinano l’etichettatura degli allergeni. Ossia di un elenco di 14 ingredienti che devono essere chiaramente segnalati sull’etichetta, come uova, latte, pesce, crostacei ed ora anche gli insetti. In particolare, è stato riconosciuto che il consumo del tenebrione mugnaio giallo può provocare reazioni allergiche specialmente a chi è allergico o intollerante ai crostacei e agli acari della polvere.

  

Nei mesi successivi al regolamento sono arrivate anche richieste per autorizzare anche il consumo di altre varietà, come:

  • l’Alphitobius diaperinus larve (tenebrione mugnaio minore);
  • Gryllodes sigillatus (grillo domestico tropicale);
  • l’Acheta domesticus (grillo domestico);
  • Locusta migratoria;
  • Hermetia illucens (mosca soldato nero).

Ovviamente anche per queste sarà necessaria la valutazione di sicurezza da parte dell’EFSA per l’autorizzazione al commercio. Sebbene si tratti di un tema controverso per alcuni e di una svolta per altri, l’Italia ha sorpreso tutti in questo ambito. Infatti, ha autorizzato la prima azienda italiana a produrre e vendere alimenti a base di insetti.

  

Nutrinsect

Nutrinsect è (per ora) la prima ed unica azienda italiana autorizzata alla produzione, trasformazione e commercializzazione della farina di grillo per alimentazione umana. La società marchigiana con sede in provincia di Macerata dopo due anni di attesa potrà distribuire la farina liofilizzata di grilli, definita “polvere sgrassata di acheta domesticus”.  La storia del gruppo racconta come cambiano le necessità nel tempo e le idee innovative che sono alla base della svolta sostenibile. Nel 2011 Jose Cianni, fondatore e ceo dell’azienda, si interessa alla questione e decide di puntare su questa nuova frontiera ancora sconosciuta. La sua scelta è coraggiosa anche perché deriva da una famiglia di allevatori tradizionali, quindi ha continuato sulla stessa linea, cambiando materia prima.

    

Il gruppo per avere l’approvazione ha atteso due anni, in cui ha avviato due diversi iter burocratici, uno dei quali prevedeva la collaborazione con aziende già autorizzate. Non a caso per la prima fase, la distribuzione della farina “Nutrinsect” sarà curata dalla Reire di Reggio Emilia. I destinatari sono le aziende alimentari e a tutto il settore horeca: mentre serve altro tempo per i supermercati.

   

Di preciso, l’allevamento della società non è considerato intensivo per via delle condizioni in cui vivono i grilli che contano un tasso di mortalità bassissimo. Inoltre, non sono usati farmaci o antibiotici, dunque il profilo nutrizionale del prodotto è di altissima qualità. Ciò è fondamentale per due principali aspetti:

  • la salute umana, poiché la farina in esame è ricca di proteine, ferro, calcio, vitamina B12 e fibre;
  • la salute ambientale, visto che per produrre 1kg di carne servono 15mila litri di acqua e solo 5 per 1kg di farina di grilli.

Ad oggi l’azienda produce 2 tonnellate di polvere di grillo liofilizzata al mese, grazie all’allevamento di 10 milioni di grilli. L’obiettivo è quello di produrne 400 tonnellate, ma c’è tempo per Nutrinsect di ampliare il proprio mercato e affinare le proprie tecnologie.

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Il Parmigiano Reggiano continua il suo percorso verso una produzione “green”.

By : Aldo |Febbraio 01, 2024 |Arte sostenibile, Home |Commenti disabilitati su Il Parmigiano Reggiano continua il suo percorso verso una produzione “green”.

La sostenibilità come soluzione alla crisi climatica è il principio che bisogna seguire per proteggere il nostro pianeta e allo stesso tempo i nostri prodotti. Soprattutto se si parla di alimenti DOP, tipici del Made in Italy, come ad esempio, il Parmigiano Reggiano, sempre più innovativo e “green”.

I cambiamenti che preoccupano

Il Parmigiano Reggiano è un formaggio DOP, nato probabilmente tra il XII e il XIV secolo nella zona tra Parma e Reggio Emilia. Si tratta del prodotto Made in Italy più importato e famoso al mondo, una chicca tutta italiana, parte della nostra cultura e tradizione. Tuttavia, come tanti altri alimenti tradizionali, anche il Parmigiano Reggiano deve confrontarsi con i cambiamenti climatici. In particolare, allevatori ed agricoltori si stanno muovendo affinché, i loro prodotti garantiscano qualità e caratteristiche nel tempo, riducendo il loro impatto sull’ambiente.

Sebbene la ricerca di nuove tecnologie e tecniche produttive del formaggio fosse iniziata anni fa, negli ultimi mesi è cresciuta per molteplici ragioni. Una in particolare riguarda la strategia per affrontare i cambiamenti climatici in modo tale che, la produzione dell’alimento possa continuare senza ostacoli di alcun tipo. Questa attenzione è incrementata soprattutto dopo le alluvioni di maggio nella regione dell’Emilia-Romagna, che hanno portato gravi danni nell’area da essi interessata.

Inoltre, tale evento ha sottolineato quanto sia importante la protezione dell’area di produzione del Parmigiano, una zona molto ristretta ma anche molto vicina ai corsi d’acqua. Si tratta di territorio che comprende Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna alla sinistra del fiume Reno e Mantova, alla destra del fiume Po. Nello specifico l’esondazione unita alle condizioni di siccità del periodo di maggio, hanno avuto ripercussioni sulla produzione del latte. Questo processo è dovuto all’alterazione dei foraggi primaverili e quindi ad una scarsa e inadeguata alimentazione del bestiame.

 

I progetti e le soluzioni

Per affrontare i futuri eventi metereologici estremi e ridurre l’impatto del formaggio, il settore in questione ha applicato delle modifiche nei suoi processi produttivi. Perciò sono state attuate molteplici variazioni che consentono di incrementare la sostenibilità di ogni fase produttiva, garantendo la qualità del prodotto e la protezione del bestiame. Come in altri ambiti, anche qui, la sostenibilità non è rilegata solo ed esclusivamente alla riduzione delle emissioni, ma è un concetto generale e complessivo.

    

Negli anni l’intero ambito si è mosso per limitare gli impatti negativi sull’ambiente, con un occhio di riguardo per le emissioni di CO2. Questo è forse il problema più grande, della produzione, il più additato nelle varie discussioni correlate al riscaldamento globale e dunque alla scelta di diete vegetariane e vegane. Tuttavia, essendo questo un alimento simbolo dell’Italia, è difficile pensare di eliminarlo totalmente dalla nostra tradizione culinaria, o di renderlo “plant based”. Nonostante la nuova direttiva Europea non abbia compreso soluzioni per le emissioni delle filiere zootecniche, l’Italia si muove da anni per la loro riduzione. Infatti, secondo l’ISPRA, dal 1990 al 2021 il sistema zootecnico italiano ha ridotto complessivamente le emissioni di gas serra di circa il 15%. Per precisare la zootecnia incide per il 7,8% delle emissioni. Per rimediare a tale problema agricoltori e allevatori hanno approfondito la questione del biogas. I motivi alla base di questa mossa sono principalmente due:

  • Il 45% delle emissioni del settore agricolo dipende dalla fermentazione enterica delle vacche (che dipende dall’alimentazione);
  • La gestione delle deiezioni produce il 20% delle emissioni

Pertanto, la scelta che si porta avanti da anni è quella di sviluppare impianti di biogas alimentati proprio dai reflui zootecnici. Quindi il metano viene recuperato per la produzione di energia evitando la sua dispersione in atmosfera e limitando anche le emissioni di ammoniaca (-26%).

   

Le innovazioni delle singole aziende

Così, le varie aziende produttrici del Parmigiano Reggiano hanno cominciato ad apportare piccole, grandi modifiche per migliorare la loro impronta sul pianeta. Tutte sono coinvolte da anni in una trasformazione tecnologica per assicurare una maggiore qualità e sostenibilità dell’alimento. Questo è stato possibile grazie ad investimenti con lo scopo di fronteggiare siccità, alluvioni e transizione energetica.

    

Come prima cosa, è stata ridotta la quantità di antibiotici nell’alimentazione, del 43% in 10 anni, a seguito di modifiche che hanno migliorato giorno dopo giorno le condizioni di vita del bestiame. Lo dichiara Paolo Gennari, dell’Azienda Agricola Gennari che ha investito nella tecnologia con l’obiettivo di far vivere il bestiame nel benessere. Come? Con un monitoraggio completo e specifico delle varie condizioni di vita dell’animale e della sicurezza dello stabile in cui si trovano. In questo senso è importante monitorare la temperatura e tenerla costante per tutto l’anno, in modo tale che non ci siano grandi sbalzi anche per il corpo della vacca. Tutto ciò è possibile grazie ai grandi ventilatori applicati nelle stalle, limitando lo stress da caldo, l’aumento di infezioni ed emissioni dell’animale. Altrimenti, in estate le mucche bevono di più e mangiano meno, riducendo la produzione di latte. Un’ulteriore attenzione è rivolta alla fornitura di foraggio, sottoposta ad un rigido protocollo per poter essere somministrato alle mucche. Sulla base di tale regolamento l’Azienda Gennari ha deciso di coltivare direttamente 500 ettari di terreno (vicini gli allevamenti), per un’elevata sicurezza dell’alimentazione del bestiame.

    

Una diversa questione è invece legata alla tutela del territorio, come spiega Nicola Bertinelli, vicepresidente nazionale di Coldiretti e presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano. L’alimento in analisi è prodotto interamente in montagna. Il 20% della produzione totale ossia 850 mila forme, si è concentrata negli 81 caseifici di montagna che coinvolgono 900 allevatori. Dal loro lavoro di producono ben 4 milioni di quintali di latte. Ciò ha reso possibile il mantenimento di un’agricoltura in zone altrimenti abbandonate, invertendo una tendenza di decrescita che aveva colpito il comparto fino al 2014.

    

Mentre nell’azienda Valserena si sperimenta in modo diverso. Nell’impianto che produce 16 forme al giorno, c’è una grande attenzione verso l’irrigazione e la concimazione e si segue l’intera filiera produttiva. Nei 430 ettari di terreno oltre al foraggio, si coltivano pomodori, cereali ed erbe mediche. Inoltre, è prevista l’installazione di pannelli solari e al creazione di aree umide per il riparo e la riproduzione di uccelli, anfibi e mammiferi. Senza contare la semina “su sodo”, una tecnica per la coltivazione di frumento in terreni non lavorati.

     

Insomma, se questi sono gli impegni e le tecnologie delle aziende produttrici del Parmigiano Reggiano, possiamo dire che il prodotto finale è un Made in Italy speciale. Perché non solo, rappresenta la nostra tradizione, la qualità e la bontà dei nostri prodotti, ma l’impegno in una maggiore sostenibilità di produzione, per proteggere il Belpaese.

 

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A Roma arriva la “Proposta di strategia di adattamento climatico”

By : Aldo |Gennaio 30, 2024 |Home |Commenti disabilitati su A Roma arriva la “Proposta di strategia di adattamento climatico”

La Capitale d’Italia, secondo gli ultimi studi e i fenomeni estremi verificatesi è tra le città italiane più colpite dai cambiamenti climatici. In un capoluogo della sua portata qualsiasi modifica ad infrastrutture, spazi e dinamiche quotidiane risulta sempre una missione impossibile. Questo però non ha fermato il comune di Roma a proporre un piano per sviluppare degli adattamenti al cambiamento climatico.

    

Roma 2023

La situazione in cui si trova la città di Roma è abbastanza delicata ma allo stesso tempo descrive una vera emergenza. Le analisi degli ultimi anni affermano che a Roma l’aumento del caldo è più marcato rispetto a tutti gli altri capoluoghi di regione italiani. Nello specifico i suoi territori, dall’entroterra al mare, presentano fragilità che si intensificheranno con i cambiamenti climatici.

    

Per questo, il 23 gennaio 2024 è stato presentato al campidoglio un documento di 400 pagine, riguardante la strategia per gli adattamenti al cambio climatico. Nel testo si inquadrano scenari e si propongono soluzioni nell’ambito della rete idrica, della riforestazione urbana ed altro. Tutto ciò con l’obiettivo di mettere in sicurezza il territorio dagli impatti climatici previsti al 2050. L’approvazione da parte dell’assemblea capitolina è prevista per il 30 aprile, nel frattempo si organizzeranno incontri e workshop con stakeholders e gli enti coinvolti. Tra le realtà e gli studiosi si trovano:

  • Fondazione Cmcc (Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici),
  • Ispra;
  • Cnr;
  • Dipartimento di Epidemiologia SSR Lazio;
  • ASL Roma 1 (DEP Lazio);
  • Enea;
  • Università La Sapienza;
  • Università Roma Tre;
  • Autorità distrettuale di Bacino dell’Italia Centrale;
  • Areti;
  • Ferrovie dello Stato;
  • Consorzio di bonifica;

La Strategia prevede di approfondire rischi e scenari per il territorio di Roma, per metterla in sicurezza e rafforzando la sua resilienza. In tal modo, la Capitale potrà mettersi al passo con le città europee che condividono gli stessi obiettivi sul clima.

    

Il documento

Il testo presentato individua l’insieme delle misure di adattamento da applicare a Roma entro il 2030 e servono per preparare il territorio agli impatti del 2050. La proposta affronta vari ambiti di intervento, tuttavia evidenzia quattro questioni prioritarie da affrontare a Roma:

  • Alluvioni ed esondazioni
  • Siccità
  • Isole di calore urbano
  • Impatti sul litorale costiero.

Gli obiettivi della fase iniziata, ovvero quella della consultazione pubblica, sono esattamente 3. Il primo è quello di promuovere la sensibilizzazione e la responsabilizzazione dei cittadini, rendendoli partecipi e consapevoli dei possibili avvenimenti. Il secondo invece, mira alla collaborazione scientifica per risolvere ed affrontare questi cambiamenti, favorendo la sperimentazione anche per quanto riguarda nuovi posti di lavoro. Infine, prevede una grande cooperazione con le realtà interessate e fondamentali per difendere e portare avanti le politiche climatiche. Nella prima parte del piano vengono presentati i dati meteoclimatici degli impatti in corso e dei rischi. In particolare, della riduzione delle precipitazioni piovose, la maggiore siccità e l’aumento delle ondate di calore. Si tratta si una fase introduttiva in cui si descrive un quadro completo degli ultimi anni e dei loro fenomeni.

      

Seconda e terza parte

La seconda parte è dedicata ai progetti di vario tipo in corso per rendere la città più resiliente agli impatti. Per esempio, si evidenzia l’importanza del corretto uso della risorsa più importante al mondo, ovvero l’acqua. In questo senso si descrivono i punti per ridurne lo spreco e gli interventi necessari. Per prima cosa si ricorda l’importanza di un efficiente sistema di monitoraggio territoriale dei bacini idrici e quindi anche della rete capitolina. Si intende addirittura digitalizzarla, massimizzando l’efficacia con nuove istallazioni e tecnologie. Mentre per una maggiore sostenibilità è stata avanzata la proposta di riusare le acque reflue in uso agricolo e industriale. 

      

Guardando ad un altro ambito viene citata la biodiversità urbana e la sua rilevanza, che può accrescerci con specifici progetti e interventi. Non a caso l’obiettivo generale è quello di rendere “la foresta urbana più resiliente, sana e diversificata, creando delle “Isole di naturalità”. Di conseguenza aumenta il benessere di tutti gli ecosistemi circostanti e quindi anche quello umano. Questi sono le operazioni “nature based” che devono necessariamente essere accompagnate dagli interventi nei contesti urbani antropizzati. Un esempio, i “tetti verdi” o le pavimentazioni di colori chiari per riflettere l’albedo.

        

Progetti avviati

Per chiudere il documento, sono riportati nella terza parte i progetti già avviati correlati agli ambiti e agli eventi elencati in precedenza. Si individuano principalmente gli obiettivi e le misure di adattamento per preparare il territorio di Roma agli impatti in corso e a quelli prevedibili. Tra i programmi in corso si citano le riforestazioni urbane, che tra il 2022 e il 2023 hanno visto crescere un totale di 448 piante vicino le scuole di quasi tutti i municipi di Roma.  Oppure la manutenzione della rete idrica, riducendone le perdite al 27,8% contro il 43% del 2007 (e una media nazionale del 42%). O ancora si parla di attività di riqualifica di piazze storiche come quella dei Cinquecento e di San Giovanni in Laterano.

       

Restando nell’ambito dei progetti avviati, bisogna ricordare che l’Assemblea Capitolina ha approvato il 19 gennaio 2023 le nuove Linee guida dei lavori pubblici di Roma Capitale. Questo è necessario anche per ridurre i livelli di inquinamento atmosferico, acustico e l’effetto isola di calore urbano e migliorare la città interamente.  Per finire, sono riportati anche i finanziamenti e gli enti finanziatori di ciascun progetto.

       

In conclusione

Con tale proposta, Roma diventa la prima città ad avvalersi di un piano strategico per l’adattamento contro i cambiamenti climatici. Che sia un merito o una necessità, vista la sua popolazione, le sue caratteristiche e l’importanza a livello nazionale, è pur sempre una mossa verso l’innovazione.
Ora bisogna attendere la fine di aprile per sapere se e come verrà messa in atto.

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Come possiamo rendere lo sci più sostenibile?

By : Aldo |Gennaio 28, 2024 |Arte sostenibile, Home |Commenti disabilitati su Come possiamo rendere lo sci più sostenibile?

Gennaio quasi al termine e la neve dovrebbe essere arrivata ovunque o per meglio dire, dove dovrebbe essere presente. Ma con gli anni, si riscontrano maggiori problemi in questo settore, soprattutto per chi, fino a qualche anno fa, ha vissuto grazie a questa stagione.

L’Italia sempre meno innevata

Ancora non possiamo avere un quadro completo riguardante il periodo nevoso del 2024, ma basta analizzare i dati del 2023 per capire la tendenza del futuro. L’allarme arriva dalla Fondazione CIMA, che sulla base dei suoi monitoraggi, afferma che la situazione peggiora annualmente sulle Alpi, a discapito anche dei bacini idrici.

Per indagare sulla situazione che stiamo vivendo, bisogna prima spiegare il concetto di “accumulation day” previsto per il 4 marzo. Si tratta del giorno di massimo accumulo di neve, dopo il quale è più difficile avere fiocchi intensi e prolungati. Quindi da quel momento in poi i serbatoi d’acqua sulle montagne, si riempiranno difficilmente nelle successive settimane. Tuttavia, questa condizione non rispecchia più il corso naturale del processo, soprattutto perché viene smorzato dai lunghi periodi di siccità (non solo estiva). Solitamente si registrano tra i 10 e 13 miliardi di m3 d’acqua nei primi giorni di marzo, nel 2023 erano solo 6 miliardi. 

Un secondo fattore che preoccupa gli studiosi è la velocità con la quale la neve fonde; ultimamente in modo più repentino rispetto al passato. Tale celerità è determinata dalle temperature calde che si registrano dopo un’abbondante nevicata. Così la neve si scioglie prima di quanto sarebbe necessario per il fabbisogno irriguo, raddoppiando il fabbisogno d’acqua per l’irrigazione.

Ultimo e non per importanza bisogna tenere da conto il fattore ghiacciai. Infatti, non solo la neve li alimenta d’inverno, ma li protegge in estate dalla fusione; peccato però che il trend stia cambiando. Nel 2022 infatti la fusione glaciale è avvenuta varie settimane prima del solito; dunque, è probabile che questo fenomeno si ripresenti anno dopo anno.

    

Il settore sciistico

Ovviamente tutti i processi appena descritti sono pericolosi per tutti e non solo per gli ecosistemi montani e fluviali. Nonostante ciò, c’è chi vive letteralmente grazie al periodo nevoso e alle attività ad esso correlate, che sta soffrendo in primis i cambiamenti climatici. Forse però, sono proprio loro, che possono fare la differenza, intraprendendo un cambiamento dei loro business rendendoli più sostenibili.

Secondo i dati del 2023, in Italia ci sono 5.700 km di piste, le quali hanno registrato il picco di frequenza a metà gennaio. Quindi è opportuno trovare delle soluzioni per organizzare delle settimane bianche meno impattanti sotto ogni singolo aspetto. Senza dubbio, tutto questo è possibile solo con un cambio di mentalità, un approccio diverso all’economia di questo settore. Comunque, alla base di tutto è necessaria la volontà collettiva, di vivere in armonia e proteggere la natura.

   

Periodicità e neve artificiale

Per invertire la rotta e migliorare le prestazioni di ogni attività legata al mondo dello sci, si possono considerare nuove soluzioni per settimane bianche, più verdi. Senza dubbio la prima sarebbe quella di approfittare della neve quando c’è, quindi organizzare viaggi, e gite fuori porta ad hoc. Al contrario del pensiero comune, ossia quello di pretendere che la neve sia presente anche quando non ci sono le condizioni giuste. Tale discorso è importante da diffondere soprattutto per limitare l’impiego della neve artificiale, una pratica che aiuta le realtà locali ma non il pianeta. Più precisamente, per ottenere il quantitativo necessario di neve artificiale, servono acqua ed energia in quantità elevate e ciò determina maggiori costi per tutti.

   

Più precisamente, l’acqua usata per la neve viene sottratta al settore agricolo o idroelettrico. Mentre l’energia usata aumenta i costi per i gestori, quindi per gli skipass e l’ambiente a meno che quell’energia non provenga da fonti rinnovabili. Anche perché, se l’energia usata, derivasse da combustibili fossili, sarebbe un circolo in cui: per rimediare a lacune per colpa del caldo, usiamo energia che incrementa le emissioni.  Oppure sarebbero auspicabili nuove tecnologie che consentono la produzione di neve artificiale sostenibile.

      

Per queste ragioni si potrebbe pensare di approfittare della neve quando è presente pianificando le proprie giornate seguendo il meteo e non le feste comandate. Di certo è più complicato per noi organizzarci, ma almeno avremmo la sicurezza di trovare la neve e passare delle belle giornate. In questo modo si sfrutta la risorsa per quanto tale, limitando pratiche artificiali incompatibili con i processi della natura. Al tempo stesso tour operator, albergatori ed enti locali potrebbero investire su altre forme di intrattenimento ed altre attività. Per esempio, si potrebbero pubblicizzare maggiormente camminate, ciaspolate, discese con lo slittino, sci alpinismo, sci di fondo e molto altro.

   

La sostenibilità dei turisti

Allo stesso tempo anche i turisti possono fare la differenza: anche in questo caso nessuno è escluso dal cambiamento. Per prima cosa si può ridurre la quantità di vestiti che si comprano ogni anno per le stesse attività. Infatti, basterebbe comprare degli indumenti di buona qualità una volta, anche a prezzi poco più elevati della norma, ma che possano durare anni. Per quanto riguarda sci, scarponi, bastoni, casco si potrebbe parlare di noleggio, in modo da ridurre gli articoli in viaggio, risparmiare e ridurre il nostro impatto sul pianeta.

   

Un secondo aspetto fondamentale è quello della mobilità. Sarebbe adatto spostarsi a piedi, favorendo passeggiate in mezzo alle montagne, che fanno sempre bene anche alla nostra salute. In alternativa si possono scegliere gli skibus, quindi mezzi di trasporto comuni, tipici delle località sciistiche.

Dunque, sebbene lo sci sia uno sport impattante, con gli accorgimenti elencati e le innovazioni del secolo troveremo sicuramente il modo di renderlo sostenibile. O almeno ci proveremo.

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Accordo di Parigi. Grazie all’accordo con la Svizzera, arrivano a Bangkok gli e-bus.

By : Aldo |Gennaio 17, 2024 |Arte sostenibile, Efficienza energetica, Emissioni, energia, Home |Commenti disabilitati su Accordo di Parigi. Grazie all’accordo con la Svizzera, arrivano a Bangkok gli e-bus.

Si sente spesso parlare di compensazione della CO2, di riforestazioni e progetti di sviluppo oltre oceano. Sembra che questi siano gli unici modi con cui uno stato possa compensare le sue emissioni, ma un’articolo dell’Accordo di Parigi cambia tutto.

Articolo 6 Accordo di Parigi

L’articolo 6 è un punto fondamentale dell’Accordo di Parigi poiché consente le collaborazioni tra Stati per raggiungere i propri obiettivi climatici. Il punto ammette due tipi di riduzioni delle emissioni conseguite all’estero (Internationally transferred mitigation outcomes, ITMOS) divise in 2 sottoclassi:

  • quelle che risultano da un meccanismo regolato dall’Accordo di Parigi (art. 6.4);
  • quelle che risultano da accordi bilaterali e multilaterali (art. 6.2).

Con tali premesse c’è la possibilità di creare una rete di cooperazione internazionale sul mercato del carbonio per ridurre le emissioni di gas serra. Tuttavia, anche questi meccanismi devono seguire delle regole specifiche, affinché i progetti di compensazione non siano vani. Più precisamente, esiste una procedura obbligatoria che entrambi gli stati devono seguire per evitare il doppio conteggio delle riduzioni delle emissioni. Quindi

  • un paese trasferisce unità di emissioni a un altro paese
  • il venditore sottrae tali unità di emissioni dal proprio obiettivo di emissioni
  • l’acquirente deve aggiungerle al proprio obiettivo.

Grazie a questo articolo, esiste un gran numero di operazioni possibili per la riduzione del carbonio, con lo scopo di agire contro i cambiamenti climatici.

    

Svizzera e Thailandia

La notizia che circola da qualche giorno riguarda proprio l’applicazione di tale articolo. In Thailandia sono arrivati gli e-bus o bus elettrici dalla Svizzera per compensare le emissioni di CO2. Un’operazione nuova, prima del suo genere che apre le porte a nuovi piani internazionali, sviluppati semrpe sulla base delle direttive dell’Accordo di Parigi.

    

Il programma di Energy Absolute Public Company Limited è sostenuto dalla Foundation for Climate Protection and Carbon Offset Klik (Klik Foundation). Ma anche da South Pole, società svizzera specializzata in queste specifiche operazioni. L’accordo bilaterale serve per ridurre le emissioni e l’inquinamento atmosferico di Bangkok attraverso l’introduzione di veicoli elettrici nel trasporto pubblico gestito da operatori privati. A tal proposito, il quotidiano “La Repubblica” ha intervistato Aurora D’Aprile, consulente di Carbonsink, parte di South Pole dal 2022. Nella conversazione si spiegano i motivi per cui questo, è considerato un piano unico nel suo genere.

    

Il primo progetto

La partnership tra Svizzera e Thailandia è considerata una novità poiché prevede lo scambio di crediti di carbonio tra Stati e non solo tra privati. La sorpresa deriva dal fatto che tale pratica è consentita dall’Articolo 6 ma nessuno ancora aveva applicato tale norma. Un fatto, questo, incomprensibile, poiché l’articolo mirava proprio alle collaborazioni tra governi. Inoltre, era chiaro che con la cooperazione si sarebbero ridotte maggiormente le emissioni, rispetto ad una pratica solitaria e privata.

   

Un secondo motivo per cui il progetto è ritenuto primo nel suo genere è il fatto che sia il primo in cui l’iter, legato al mercato del carbonio, sia stato completato. Più precisamente, il credito va sviluppato secondo dei criteri condivisi, dopodiché il Paese in cui il credito viene maturato deve autorizzarne l’esportazione, e questo è avvenuto.  Di certo la collaborazione tra stati rende il piano più influente e sicuro, visto che gli Stati possono dare maggiori garanzie sull’effettiva consistenza dei crediti. Soprattutto per quanto riguarda il doppio conteggio. Infatti, con l’applicazione dell’Articolo 6, rende teoricamente impossibile che la stessa riforestazione (o piano) venga usato per la compensazione di clienti diversi.

    

Un terzo motivo per definire il programma tra Svizzera e Thailandia è il suo oggetto: il rifornimento di bus elettrici nella metropoli di Bangkok. Effettivamente quando si parla di compensazione si punta sempre alle riforestazioni o ad impianti per energie rinnovabili. Quindi il piano in esame dimostra un nuovo settore in cui si può operare ossia il settore della mobilità elettrica.

    

Conclusioni

Tuttavia, non sono mancate critiche anche in questa situazione, soprattutto contro la partnership stessa. Le lamentele si basano sull’idea che he prima o poi Bangkok avrebbe dovuto comunque cambiare la sua flotta di bus obsoleti. Pertanto, non si assiste ad un’”addizionalità”, non è un’operazione che si fa in più per il clima.

   

Ma è pur vero che dietro tali progetti ci sono talmente tante dinamiche e questioni da seguire che criticarne lo scopo, non risulta produttivo. Soprattutto perchè si tratta di stati diversi sotto ogni punto di vista; quindi, aver trovato un accordo è già una vittoria.

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Auto elettriche e batterie innovative: a che punto è arrivata la scienza?

By : Aldo |Gennaio 17, 2024 |Home |Commenti disabilitati su Auto elettriche e batterie innovative: a che punto è arrivata la scienza?

Si parla di transizione ecologica, di nuove abitudini, rinnovabili ed elettrico. I fatti non vanno alla stessa velocità delle parole ma di sicuro siamo in una fase di cambiamento. Tuttavia, ci sono ancora dubbi sull’efficienza dei nuovi sistemi tecnologici promossi dal settore sostenibile.

    

La ricarica delle auto elettriche

La vendita di auto elettriche nel 2023 è aumentata rispetto all’anno precedente, passando da un 4,2% ad un 5,6%. Nello specifico si contano, tra quelle vendute e quelle immatricolate, 66.679 auto. Sebbene ci sia una leggera crescita sotto questa sfera, ci sono ancora delle perplessità per questa transizione.

   

Tra queste si discute sempre più sui tempi di ricarica delle batterie, per alcuni ancora troppo lunghi per essere efficienti. L’EY Mobility Consumer Index 2023, ha condotto uno sondaggio in Italia, per dimostrare quali siano le necessità e le aspettative degli italiani. In particolare, afferma che il 44% degli intervistati includono tra i fattori di maggior impatto nell’esperienza di ricarica proprio il tempo di attesa troppo lungo. Oltre a questi sono compresi il prezzo iniziale e le difficoltà correlate alla scarsa presenza di colonnine di ricarica nelle strade.

Quella di velocizzare la ricarica delle auto rappresenta una richiesta difficile da realizzare, almeno per ora e per l’attuale ampia domanda. Ma non è detto che sia impossibile.

   

Gli studi

La ricarica delle auto ha dei tempi ancora troppo lunghi secondo alcuni ma per poter risolvere tale “problema” servono delle particolari innovazioni. Innanzitutto, le auto elettriche hanno delle batterie agli ioni di litio, che hanno bisogno di un’enorme quantità di energia per garantire un’elevata autonomia.

   

Ovviamente a seconda dell’auto ci saranno condizioni di guida, della potenza e delle applicazioni che possono variare la prestazione della batteria. Nonostante ciò, si può confermare che una batteria da 50 kWh, può garantire tra i 250 e i 300 chilometri di autonomia. Ci sono anche modelli più prestanti che possiedono batterie che arrivano anche ai 100 kWh, ed il problema è proprio nella capacità delle batterie. Perché ricaricare una batteria di un certo livello, serve un determinato tipo di potenza elettrica: certo è che se i tempi si accorciano la potenza deve aumentare.

   

Tale fenomeno, è stato spiegato da Claudio Rabissi, ricercatore del MRT FuelCell & Battery Lab del Dipartimento di Energia del Politecnico di Milano. In pratica la batteria ha un range di tensione preciso che raggiunge il massimo quanto più è carica. In questo range quindi la batteria può lavorare, ma proprio per la caratteristica appena citata, si presenterebbero vari problemi con la ricarica rapida. Infatti, ricaricando velocemente la batteria, la tensione arriverebbe il limite massimo in poco tempo e prima di aver caricato il 100%, fermandosi magari all’80%. A quel punto nessuno sceglierebbe di girare senza “pieno” e quindi si aspetterebbe un tempo maggiore per quel 20% mancante.

    

Concretamente, la richiesta di una ricarica rapida potrebbe non convenire poiché:

  • aumenta la potenza di ricarica
  • il limite massimo di tensione si raggiunge prima
  • bisogna abbassare la potenza
  • serve più tempo per terminare la ricarica.

Si tratta quindi di un trade-off, una pratica che porterebbe solo ad uno sforzo maggiore della batteria e quindi ad una sua usura.

    

La disponibilità

Oltre al problema dei tempi di ricarica, gli intervistati ricordano la scarsa rete di colonnine presenti nelle strade italiane che va contro la ricarica veloce. Questo è il dettaglio che i richiedenti non hanno tenuto in mente, ossia il fatto che comunque l’energia per le batterie arriva dalla rete elettrica.

    

In sintesi, non c’è l’adeguata disponibilità di elettricità per sostenere dei ritmi così veloci ed energivori. Per esempio, la potenza massima disponibile di un’utenza domestica normalmente è pari a 3,3 kW. Se in una stazione di ricarica di fossero anche solo 4 automobili, la richiesta di potenza sarebbe più che elevata. Inoltre, in una tale situazione, servirebbero grandi potenze non programmabili, che potrebbero determinare o coincidere con picchi di domanda ingestibili. 

    

Proprio per tale ragione, la scienza si sta concentrando sullo sviluppo di sistemi di accumulo che possano immagazzinare energia, per donarla quando necessaria. In questo modo si potrebbero incrociare la domanda e l’offerta rendendo più efficiente ed efficace la transizione all’elettrico.

   

Oppure si potrebbe continuare a lavorare sulle batterie a litio perfezionando la creazione e la struttura interna dei componenti. Mentre il fronte più rivoluzionario si basa sulle batterie quantistiche, per funziona il processo inverso rispetto a quello spiegato nei paragrafi precedenti. Maggiore è la taglia della batteria, più veloce è la ricarica. Si tratta comunque di una tecnologia alle prime fasi sulla quale sta lavorando la start-up Planckian, spin-off congiunto dell’Università di Pisa e della Scuola Normale Superiore.

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