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Pericolo PFAS: grazie ad un fascio di elettroni potremmo bonificare le aree contaminate.  

By : Aldo |Febbraio 23, 2024 |Arte sostenibile, Home |Commenti disabilitati su Pericolo PFAS: grazie ad un fascio di elettroni potremmo bonificare le aree contaminate.  

La contaminazione di aree o habitat è un problema che ci riguarda semrpe visto che dipendiamo dalla natura per tantissimi aspetti. Purtoppo però, i primi a contaminare l’ambiente siamo noi con le nostre attività, dunque dopo anni di produzioni e abitudini siamo costretti a trovare delle soluzioni ai danni che noi stessi abbiamo creato. L’esempio affrontato nell’articolo riguarda la contaminazione di PFAS delle fonti di acqua potabile e le soluzioni innovative scoperte di recente. 

    
I PFAS

I PFAS, abbreviazione di polifluoroalchiliche, sono una classe di composti chimici oggetto di crescente preoccupazione a livello globale per la loro pericolosità. Sebbene siano impiegati dagli anni ’50, in una vastissima gamma di applicazioni industriali e commerciali, sono la causa di gravi danni alla salute del pianeta. I processi naturali faticano a degradarle dunque, la loro persistenza nell’ambiente e la capacità di accumularsi nei tessuti biologici li rendono una minaccia per la salute umana e l’ambiente.

   

Di preciso, la contaminazione da PFAS è diventata un problema diffuso in tutto il mondo e riguarda principalmente l’acqua potabile, il suolo e gli alimenti. Tutto ciò è causato dagli impianti industriali che li producono dalle discariche, dai rifiuti e i roghi chimici. In Italia diverse città, soprattutto del nord Italia, hanno registrato livelli preoccupanti di PFAS nelle loro risorse idriche, sollevando seri dubbi sulla sicurezza dell’acqua potabile. Anche se ci si muove per la bonifica delle fonti di acqua potabile, resta comunque difficile la gestione efficace e duratura della contaminazione da PFAS.

   

Le tecniche di bonifica

Le tecniche impiegate per la bonifica delle fonti di acqua potabile contaminata da PFAS sono varie. Una di queste è la filtrazione, che avviene grazie all’uso di filtri a carbone attivo che intrappola i PFAS nell’acqua. I filtri funzionano con un processo di adsorbimento, catturando le molecole nocive, mentre l’acqua passa attraverso il filtro stesso. Una seconda tecnica è l’ossidazione chimica che coinvolge differenti agenti chimici e processi fisici volti alla distruzione dei PFAS nella matrice considerata. O ancora i usano ozono e perossido di idrogeno che trasformano quelle molecole in composti meno dannosi o completamente inerti. Oppure si usano membrane a nanofiltrazione e l’adsorbimento su resine ioniche, che possono rimuoverle selettivamente ed efficacemente dall’acqua.

    

Tuttavia, oggi possiamo aggiungere a questa lista, una nuova tecnologia che non prevede il filtraggio o l’utilizzo di agenti chimici. La notizia arriva dai ricercatori del Fermi National Accelerator Laboratory, che hanno usato un fascio di elettroni per distruggere i tipi più comuni di PFAS nell’acqua.

    

La soluzione elettroni

Proprio i ricercatori del Fermi National Accelerator Laboratory sono riusciti a creare con successo una nuova soluzione a questo grave problema. Di preciso, hanno usato un fascio di elettroni per distruggere i tipi più comuni di PFAS come i PFOA e i PFOS. Si tratta di un’innovazione promettente che consente anche di bonificare e mettere in sicurezza grandi volumi d’acqua ad alta concentrazione.

    

In questo caso il laboratorio ha usato campioni d’acqua contaminata forniti dalla 3M, una multinazionale produttrice di molteplici prodotti industriali. La matrice in esame era sigillata in contenitori di vetro borosilicato con un sigillo di alluminio fissato sul vetro con una guarnizione in gomma (priva di PFAS). A quel punto i ricercatori hanno irradiato i campioni con un fascio di elettroni per poi spedirli nuovamente all’azienda 3M. Quest’ultima ha poi verificato che le molecole nocive fossero state distrutte senza rilasciare altri componenti pericolosi.

     

Come annunciato in precedenza, l’esito dell’esame è stato positivo poiché il fascio di elettroni li ha eliminati del tutto. Tale risultato determina la possibilità di bonifica di grandi aree soggette alla contaminazione da PFAS. È ovvio che serva ancora del tempo per fare ulteriori test, usare altri componenti e per ampliare il lavoro, ma si tratta di un’ottima soluzione ad un grave e ingente problema.

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L’Europa approva il 1° schema di certificazioni per la rimozione di CO2.

By : Aldo |Febbraio 22, 2024 |Arte sostenibile, Emissioni, Home |Commenti disabilitati su L’Europa approva il 1° schema di certificazioni per la rimozione di CO2.

Negli ultimi 30 anni, l’Europa ha dimostrato un impegno significativo nella riduzione delle emissioni di CO2. In questo modo ha posto la lotta al cambiamento climatico al centro delle sue politiche ambientali che spesso risultano essere tra le più virtuose al mondo. Non a caso è recente la nuova direttiva nel settore delle emissioni.

La lotta dell’Europa

L’Europa da anni si impegna per ridurre le emissioni di CO2 e combatte il cambiamento climatico a suon di norme e nuovi progetti. Le politiche ambiziose adottate dai suoi Stati membri, vengono spesso considerate le più virtuose o le più efficienti nel settore della sostenibilità. Infatti, si è parlato più volte di promuovere l’efficienza energetica, l’uso delle energie rinnovabili e la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio.

Sebbene si parla di cambiamenti rilevanti e di grande impatto, l’Unione ha introdotto varie misure per raggiungere gli obiettivi prefissati anno per anno. Una tra queste, il sistema europeo di scambio delle emissioni (EU ETS), che limita le emissioni dei settori industriali e delle centrali elettriche. Oppure ancora il pacchetto “Energia-Clima 20-20-20” che mira a raggiungere più traguardi. Ossia ridurre del 20% le emissioni, aumentare del 20% l’efficienza energetica e portare al 20% la quota delle rinnovabili nel mix energetico entro il 2020.

È opportuno citare anche il “Piano d’Azione per l’Economia Circolare”, che mira a ridurre l’uso delle risorse, promuovere il riciclo e l’economia circolare. Senza dimenticare il contrasto al problema dei rifiuti plastici. O anche il “Pacchetto Clima” che ha lo scopo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Da poco è stata approvata una nuova norma, che porta l’Unione sulla cima del mondo, con il primo schema di certificazioni per la rimozione della CO2.

La nuova normativa

Così l’UE dà il via libera al sequestro di carbonio sostenibile attraverso un nuovo schema di certificazioni per la rimozione di CO2. È il primo al mondo nel suo genere e dovrebbe assicurare lo stoccaggio dell’anidride carbonica per periodi di tempo sufficientemente lunghi, contribuendo al contrasto della crisi climatica. Con tale norma e l’applicazione di tante altre già approvate, Bruxelles porta avanti il suo lavoro con l’obiettivo di raggiungere emissioni nette zero entro il 2050. 

Lo schema di certificazione

Per far si che questa direttiva funzioni la Commissione ha definito criteri e punti da seguire, o necessari ai fini della certificazione. Tuttavia, è importante ricordare che si tratta di uno schema valido per più certificazioni che si distinguono a seconda del tipo di rimozione individuato.

  • la rimozione permanente del carbonio per mezzo dell’immagazzinamento del carbonio atmosferico o biogenico per diversi secoli;
  • lo stoccaggio temporaneo del carbonio in prodotti durevoli (circa per 35 anni) come, per esempio, le costruzioni a base di legno, che possono essere monitorati in loco durante l’intero periodo di monitoraggio;

Dopodiché si parla di carbon farming, un settore nel quale si può applicare:

  • lo stoccaggio temporaneo del carbonio attraverso il ripristino di foreste e di suolo, la gestione delle zone umide e delle praterie di fanerogame marine;
  • la riduzione delle emissioni del suolo, quindi la diminuzione del carbonio e del N2O derivanti dalla gestione del suolo.

Queste attività sono possibili a patto che conseguano un miglioramento in ambiti quali, il bilancio del carbonio nel suolo, nella gestione delle zone umide, nell’assenza di lavorazione del terreno e nelle pratiche di colture di copertura combinate con uso ridotto di fertilizzanti.

Uno schema per una certificazione simile, potrebbe essere un grande punto di svolta, se gestito in modo trasparente, chiaro, efficiente e lineare. Forse l’unico dubbio resta sulla sua validità, per molteplici ragioni.  Ci troviamo nuovamente di fronte ad uno schema volontario, un procedimento che non viene imposto ma scelto autonomamente sulla base di un pagamento per la rimozione di CO2. Sebbene sia una legge europea, il fatto che ci siano movimenti finanziari per raggiungere un obiettivo così importante, mette in dubbio la veridicità e la trasparenza dei passaggi.  Nonostante ciò, se l’Unione ha approvato la direttiva, non ci resta che vedere questo nuovo schema in azione e sperare che sia effettivamente una nuova grande soluzione ad un grande problema.

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L’alluminio circolare: riciclato dagli aerei dismessi arriva nelle vetture elettriche.

By : Aldo |Febbraio 21, 2024 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti |Commenti disabilitati su L’alluminio circolare: riciclato dagli aerei dismessi arriva nelle vetture elettriche.
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Gli aerei sono i mezzi di trasporto che ci fanno sognare di più, anche se giorno dopo giorno inquinano l’atmosfera con i loro carburanti. Tuttavia a fine della loro vita, possono diventare fonte di materiali riciclabili e quindi possono ridurre il loro impatto sulla Terra.

    

Gli aerei dismessi

Negli ultimi decenni è aumentata la possibilità di viaggiare il mondo soprattutto in aereo. Da anni, infatti, non si tratta più di un’attività correlata ad un’élite, ma di un’esperienza accessibile a chiunque, soprattutto con la nascita delle compagnie low cost. Tale crescita ha determinato un incremento dei voli, delle aerolinee, dunque anche del lavoro e non solo.

   

Ogni giorno migliaia di aerei sorvolano i cieli di tutto il mondo inquinando l’atmosfera per mezzo della combustione dei carburanti. In questo senso, si stanno studiando tantissime tecnologie per ridurre al minimo l’impatto dell’aviazione sul pianeta, con risultati più o meno efficienti. Tuttavia, ci sono altri modi con cui il settore aeronautico può ridurre la sua impronta nel mondo e tra questi uno è legato agli aerei dismessi.

    

Proprio per la fase che stiamo vivendo è aumentato anche il numero di aerei dismessi, con il conseguente sviluppo di aree specializzate per la loro conservazione e smantellamento. Una tra queste è la Southern California Logistics Airport a Victorville, meglio conosciuta come una delle più grandi “città dei parcheggi” al mondo. Si tratta di un aeroporto dismesso che offre spazi ampi per la manutenzione, l’immagazzinamento la riparazione e lo smantellamento di aeromobili. Ma perché gli aerei vengono dismessi? Le ragioni sono molteplici e possono variare dall’obsolescenza tecnologica ai cambiamenti delle rotte aeree oppure la fine del ciclo di vita dello stesso.

   

La dismissione e la sostenibilità

Sicuramente questi “aeroporti” hanno una grande rilevanza a livello tecnico per l’aviazione ma sono importanti anche per quanto riguarda la sostenibilità. Infatti, tali spazi offrono la possibilità di smantellare i veicoli e riciclare la maggior parte delle loro componenti a favore di una nuova economia circolare. Dunque, sono considerati una risorsa preziosa per l’industria dell’aviazione contribuendo anche alla sostenibilità ambientale e alla gestione responsabile delle risorse a livello globale.

    

Le componenti riciclabili di un aeromobile dismesso offrono un’opportunità preziosa per ridurre l’impatto ambientale e sfruttare le risorse in modo sostenibile.

Tra le parti più riciclabili si trovano:

  • i materiali compositi, come la fibra di carbonio, sempre più presenti nelle moderne aeromobili;
  • parti interne degli aerei, come i sedili e i pannelli;
  • metalli come il titanio, presente in parti strutturali e nei motori.

Oppure un altro metallo fondamentale e presente in grandi quantità è l’alluminio, utilizzato per la costruzione della fusoliera e delle ali. Proprio l’alluminio è diventato il protagonista di una startup nata in Singapore, che ha investito sul recupero e il riciclo degli aerei dismessi.

    

Nandina REM

La startup Nandina REM, nasce a Singapore con l’obiettivo di riciclare alluminio, plastica ed altri componenti dagli aeromobili dismessi. Nello specifico, l’impresa vanta un sistema di riciclo dell’alluminio degli aerei di linea che agevola la produzione dei contenitori delle batterie per i veicoli elettrici. Questo perché l’alluminio è un componente fondamentale per le scocche di quel tipo di batteria; dunque, il metallo preso da un aereo può diventare il componente di una vettura sostenibile. Ecco la circolarità che fa bene al mondo.

     

Ma di preciso, questi processi di riciclo perché sono importanti? Le stime dichiarano che per produrre 1 tonnellata di alluminio servono circa 2 tonnellate di allumina estratte a loro volta da quasi 5 tonnellate di bauxite. Grazie al riciclo invece, si evita l’attivazione di ben 12 miniere di bauxite dalla capacità di 1 tonnellata all’anno. Anche perché con la crescente richiesta di auto elettriche, i ritmi sarebbero stati insostenibili. Per mezzo del sistema innovativo di Nandina REM, ci sarebbe la possibilità di produrre decine di milioni di involucri di batterie (50 milioni entro il 2035) e non solo. Si possono anche usare le plastiche per la produzione di paraurti e le fibre per altri scopi.

     

La startup si fa forza anche delle affermazioni dei principali produttori di aerei di linea, come gli Airbus e i Boeing, che prevedono la dismessa di 15mila mezzi entro il 2030. Basti pensare che con il progetto messo in campo da Nandina REM, si può recuperare il 90% del materiale in 30 giorni. L’obiettivo della società è quello di arrivare a 40 aerei entro l’anno, con grandi possibilità di riciclo, riuso. Senza dubbio consentirà di creare un’economia circolare di forte impatto, che tuttavia riduca quello ambientale, rispettando il pianeta e la società.

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L’Udinese sceglie il fotovoltaico per il suo stadio

By : Aldo |Febbraio 20, 2024 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su L’Udinese sceglie il fotovoltaico per il suo stadio

Gli stadi sono grandissimi centri di agregazione sportiva ma anche musicale e di certo sono il teatro di tantissime esperienze ed emozioni meravigliose. Se non fosse che, per la loro grandezza e capienza, consumano elevate quantità di energia, solitamente non rinnovabile. Ma ecco che anche in Italia arriva l’innovazione.

I consumi degli stadi

Gli stadi da calcio sono grandi consumatori di energia e dunque anche fonti significative di emissioni di gas serra. Tali consumi ed emissioni sono correlati all’illuminazione degli impianti, i sistemi di riscaldamento e raffreddamento, i sistemi audio e video. Oltre a ciò, si contano le infrastrutture necessarie per gestire grandi folle che richiedono un notevole quantitativo di energia. Per di più si potrebbe tenere conto anche del trasporto dei tifosi verso e dall’impianto può contribuire ulteriormente alle emissioni di CO2. Pertanto, negli anni sono state intraprese numerose iniziative per ridurre l’impatto ambientale degli stadi, tra cui;

  • l’installazione di sistemi di illuminazione a LED,
  • l’adozione di fonti energetiche rinnovabili e
  • l’implementazione di politiche per promuovere mezzi di trasporto sostenibili.

Tuttavia, in Italia, gli stadi calcistici presentano una situazione variegata poiché alcuni impianti sono più antichi di altri, a volte quasi storici. Tutti quelli che sono stati oggetto di ristrutturazioni, hanno migliorato l’efficienza energetica per ridurre le emissioni. In questo modo hanno integrato sistemi di illuminazione a basso consumo e soluzioni di riscaldamento e raffreddamento più efficienti. Tutte modifiche accessibili ai club più facoltosi o alle strutture più innovative, al contrario di quelli piccoli o meno mderni in ambito strutturale. Questo perchè tutt’ora le sfide significative in termini di sostenibilità ambientale sono anche costose e quindi non tutti gli stadi possono permettersele. Nonostante ciò, in Italia c’è ancora un grande margine di miglioramento per rendere quel luogo pieno di anime in un posto più rispettoso dell’ambiente.

    

L’Udinese per l’ambiente

La squadra dell’Udinese Calcio fondata nel 1896, ed è una delle squadre più antiche e prestigiose del calcio italiano. Il club ha avuto alti e bassi nel corso della sua storia, ma negli ultimi decenni si è affermato come una presenza stabile nella Serie A italiana, con diverse partecipazioni alle competizioni europee. Oltre ad essere un club rinomato, è anche molto attento alla sostenibilità ambientale delle sue attività. Non a caso negli ultimi anni ha proposto delle iniziative per coinvolgere la comunità locale nella sensibilizzazione ambientale, organizzando eventi e programmi educativi su questi temi e su quelli della responsabilità sociale.

    

Tra questi progetti sono inclusi investimenti nella promozione del calcio giovanile e nell’integrazione sociale attraverso progetti rivolti ai giovani della comunità locale. Nello specifico finanzia attività a favore dello sviluppo dei giovani e a promuovere valori come il fair play e la solidarietà. In questo modo l’Udinese Calcio si distingue non solo per la sua eccellenza sul campo, ma anche a essere un’organizzazione responsabile e consapevole del suo ruolo nella società.

    

Lo stadio fotovoltaico

L’ultima iniziativa del club è proprio il progetto per rendere sostenibile l’Intero Stadio Friuli. In particolare, la struttura sarà coperta da pannelli fotovoltaici grazie a un progetto che mira a produrre 1,1 milioni di kilowattora all’anno. Il progetto è stato presentato insieme alla società Blueenergy, e prevede l’installazione di 2409 pannelli solari sulla copertura delle due curve e dei distinti dello stadio. La copertura totale di 4615 metri quadrati, ha l’obiettivo di coprire buona parte dei consumi energetici dello stadio, riducendo così l’impatto ambientale delle sue attività.

     

Il Direttore Generale di Bluenergy, Davide Villa, ha sottolineato che i pannelli fotovoltaici saranno in grado di soddisfare l’intero consumo energetico di una partita in determinati periodi dell’anno. In più, il sistema fotovoltaico sarà collegato alla rete elettrica cittadina e fornirà energia pulita quando i consumi superano la produzione. Così facendo si potranno reimmettere eventuali surplus nei giorni a basso fabbisogno, creando un vantaggio sia al club che alla cittadina, un processo alla base di un’ottica sostenibile.

        

Questo programma si aggiunge alla strategia presentata anni fa, quando nel 2018 la società ha iniziato ad utilizzare energia proveniente da fonti rinnovabili. In tal modo ha ridotto l’emissione di migliaia di tonnellate di CO2.  Grazie a queste innovazioni l’Udinese calcio si è classificato al quarto posto in Europa nel Football Sustainability Index del 2022, aggiungendosi alla alla lista degli impianti sportivi sostenibili in Europa, tra cui lo stadio del Galatasaray a Istanbul di cui abbiamo parlato in precedenza, e la Johan Cruijff Arena dell’Ajax ad Amsterdam.

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In Congo si cambia cucina con i forni solari.

By : Aldo |Febbraio 16, 2024 |Arte sostenibile, Emissioni, Home |Commenti disabilitati su In Congo si cambia cucina con i forni solari.
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Quando le risorse materiali ed economiche scarseggiano è necessario affrontare la sfida di trovare soluzioni pratiche ed accessibili. Questo accade soprattutto quando si vive in contesti più svantaggiati rispetto al resto del mondo, come in alcune regioni dell’Africa, dove spesso grazie a collaborazioni internazionali, nascono progetti per una miglior vita dei cittadini.

   

Il Congo e il legname

La Repubblica Democratica del Congo si trova nel cuore dell’Africa, ed è uno Stato ricco di storia culturale, vanta un’ampia diversità etnica e tantissime tradizioni millenarie. Tuttavia, è una Nazione che nella storia ha faticato molto, soprattutto perché dipendente dalle risorse naturali, come petrolio, legname e minerali. Materie prime spesso sfruttate anche durante le colonizzazioni che più di una volta hanno determinato una grande e instabilità politica. Tra queste, quella legata allo Stato belga nel XIX secolo, ha lasciato una grande impronta nella nazione africana, con conseguenze profonde sul suo tessuto sociale ed economico.

    

Tra le risorse è stato citato il legname poiché il Congo gode di una ricchezza naturale di legname tra le più significative al mondo. Tale ricchezza è definita dalla presenta di vaste foreste tropicali che coprono gran parte del territorio e dalle specie in esse presenti. Si parla tra l’altro di mogano, l’acajou e l’ebano, piante volute dall’intero mercato mondiale per la loro qualità e bellezza. Pertanto, di tratta di piante estratte ed esportate a livello globale per mezzo di attività che implementano la deforestazione e gli impatti negativi sull’ambiente.

   

Inoltre, il legname è ampiamente usato anche nella quotidianità dei congolesi che lo impiegano nella costruzione di abitazioni, mobili, imbarcazioni e strumenti agricoli. Ed è usato anche come fonte di combustibile per la cottura e il riscaldamento con impatti negativi anche nella loro salute. Forse proprio per questo motivo, il Belgio ha deciso di collaborare con il Congo per un’innovazione riguardante la cucina. Infatti, da poco è nata l’idea di creare dei “forni solari” da distribuire in una delle regioni più in difficoltà del paese, per migliorare la vita dei cittadini ma anche la salute dell’ambiente.


Lo sfruttamento della risorsa

La collaborazione tra Belgio e RDC è basata sull’idea di migliorare le tecniche di cottura dei congolesi meno abbienti, la loro salute e la salute del pianeta. Nello specifico, la partnership è nata per la zona di Lubumbashi, situata nell’estremo sud dello stato dove circa il 98% dei quasi due milioni di abitanti dipende ancora dal carbone per la cottura domestica.

    

Questa pratica ha un enorme impatto negativo su vari aspetti. Il primo è ovviamente quello ambientale poiché è un meccanismo che necessita di legname e quindi favorisce il processo di deforestazione massiccia. In secondo luogo, l’uso del carbone come fonte di combustibile aumenta la percentuale di emissioni di CO2, che, come sappiamo, determina il surriscaldamento terrestre. Un terzo motivo invece, riguarda la salute umana, poiché le tecniche di cottura delle popolazioni, comprendono spesso un utilizzo particolare del carbone, che rilascia fuliggine negli alimenti, che poi vengono consumati dalle persone. Dunque, non è difficile capire che l’utilizzo quotidiano di tale risorsa da parte di questi popoli determini non pochi problemi.

    

I forni solari in collaborazione

Così, la collaborazione tra lo stato africano e quello Belga ha portato alla nascita del progetto Solar Cookers for All (Sc4all). Aperto nel 2021 come un’idea fai-da-te in un capanno da giardino, oggi Sc4ll, sta sviluppando forni solari con materiali riciclati per ridurre la dipendenza dalla cucina a carbone e i suoi effetti negativi. Grazie anche alla partecipazione dell’UHasselt e l’Università di Lubumbashi (UniLu), l’idea è diventata uno spin-off dell’università con l’obiettivo di creare localmente un’impresa che produca e distribuisca forni solari economici.

   

La tecnologia si basa esclusivamente sul calore dovuto all’energia solare. Quindi l’energia diretta del sole attraverso pannelli riflettenti per riscaldare il cibo senza rilasciare tossine o abbattere alberi. L’idea è definita sostenibile anche perché questi forni vengono costruiti con materiali riciclati come lattine e filo di ferro, in modo da adattare questa tecnologia alle esigenze locali.

   

Sebbene più di 4 milioni di famiglie nel mondo utilizzano questi forni, le versioni commerciali sono ancora troppo costose. Non a caso nasce Sc4ll, affinchè anche nei paesi più poveri le popolazioni possano usufruire di una tecnologia innovativa, sostenibile e salutare a prezzi bassi.  

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Greenpeace indaga sui resi online: la non sostenibilità dei famosi fashion brand.

By : Aldo |Febbraio 13, 2024 |Arte sostenibile, Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Greenpeace indaga sui resi online: la non sostenibilità dei famosi fashion brand.

Sappiamo che il settore tessile è uno dei più inquinanti sul pianeta perché non impiega solo tessuti, ma quantità ingenti di acqua e suolo ed emette tantissima CO2. Greenpeace ha deciso di indagare su questo problema per dimostrare i danni che il fast fashion arreca al mondo.

 

Fast fashion

Da tempo ormai si può fare shopping direttamente da casa, con qualche click, senza uscire o prendere la macchina. Sembra tutto più semplice e poi che prezzi! E se il capo non fosse della taglia giusta si potrebbe fare il reso a pochi euro, a volte anche gratuitamente: cosa c’è meglio di così?
Nulla.

Esattamente nulla perché il fast fashion, un trend in drastico aumento negli ultimi anni sta giovando ai nostri portafogli ma non al nostro pianeta. Questo perché si tratta di merce di bassa qualità, solitamente fatta di fibre plastiche, che durano poco prima di sgualcirsi e costano relativamente poco. Il fast fashion è figlio di una società consumista che non riesce (o almeno ancora non lo ha fatto) a capire che un’economia circolare sarebbe la soluzione perfetta ai grandi problemi del momento. Che siano la crisi economica o climatica.

   

Secondo le stime attuali, a livello globale la produzione e il consumo di prodotti tessili sono raddoppiati dal 2000 al 2015 e potrebbero triplicare entro il 2030. Questo determina un tasso minimo di riciclo, non a caso solo l’1% dei vestiti viene creato da abiti vecchi e il 3% è circolare. Infatti, ogni secondo un camion pieno di capi d’abbigliamento finisce in discarica o inceneritore.

   

L’indagine di Greenpeace

Per chiarire e dimostrare con dati certi l’impatto di questo settore, Greenpeace Italia in collaborazione con Report ha svolto un’indagine non solo sul consumo ma sui resi online dei vestiti. Come detto in precedenza, pochi click bastano per comprare e fare resi gratuiti ma il pianeta paga un alto prezzo per queste attività. Lo afferma una ricerca del 2020 pubblicata su Nature, in cui si parlava del crescente impatto ecologico del fast fashion:

  • quasi il 18% delle emissioni globali di CO2 prodotte dall’industria manifatturiera;
  • milioni di litri di acqua utilizzata per lavorare cotone e tessuti;
  • almeno 100 milioni di rifiuti tessili gettati via ogni anno. 

Ora invece il focus è sui resi e quindi sui viaggi infiniti che gli indumenti fanno, una volta rispediti al mittente. I risultati ottenuti dall’inchiesta sono a dir poco assurdi e sottolineano come questa pratica veloce e diffusa stia compromettendo la salute della Terra.

   

L’indagine durata 2 mesi si è basata su 24 capi acquistati online da grandi marchi quali Amazon, Temu, Zalando, Zara, H&M, Ovs, Shein e Asos e poi rispediti. Prima di rimandarli al mittente però, sono stati inseriti dei piccoli air tag (localizzatori GPS) per tracciarne gli spostamenti. In questo modo, i due gruppi sono riusciti a creare delle vere e proprie mappe dei resi, ma soprattutto sono riusciti a calcolare con precisioni le emissioni derivate da tali movimenti.

    

Gli abiti, quindi, hanno transitato più volte lungo tutto l’asse della nostra penisola, poi alcuni sono finiti in Europa e altri sono tornati direttamente in Cina. Questo perché gli stessi 24 capi sono stati venduti e rivenduti quasi 40 volte e resi 29 volte: ancora oggi 14 dei 24 vestiti non sono stati rivenduti. Questo giro intorno al mondo è durato ben 100 mila chilometri tra 13 Paesi europei e Cina. In media ogni pacco ha viaggiato, per consegna e reso, quasi 4500 chilometri: il tragitto più breve è stato di 1.147 chilometri, il più lungo di circa 10.300. Addirittura, sette capi che in totale hanno volato complessivamente per oltre 34 mila chilometri.

     

Le emissioni

I dati raccolti in chilometri sono stati trasformati in emissioni di CO2 grazie alla startup INDACO2, la quale ha determinato l’impatto ambientale di tutti i viaggi. Ovviamente tale valutazione tiene conto anche del packaging non solo del viaggio.  Quindi l’impatto ambientale medio del trasporto di ogni ordine e reso corrisponde a 2,78 kg di CO2e, di cui il 16% di packaging. Tali dati determinano un aumento di circa il 24% delle emissioni per pacco.

     

L’indagine di Greenpeace e Report conferma come la velocità nell’effettuare i resi in questo settore determiino un elevato impatto sul Pianeta. Nello specifico in Europa, il consumo di prodotti tessili sia il:

  • 4° settore per impatti su ambiente e clima,
  • 3° settore per consumo d’acqua e di suolo.

Sarebbero necessarie quindi delle leggi o delle normative per arginare o limitare tali operazioni o per regolamentare il transito dei resi. O ancor di più la distruzione di capi ancora utilizzabili o riciclabili. Perché una pratica che incentiva il reso attraverso i bassi prezzi, favorisce anche l’aumento dei cambiamenti climatici.

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Con Acer i-Seed si monitora la salute del suolo.

By : Aldo |Febbraio 12, 2024 |Arte sostenibile, Home |Commenti disabilitati su Con Acer i-Seed si monitora la salute del suolo.

Sebbene l’uomo costruisca da millenni edifici e costruzioni di ogni tipo, sembra non aver chiaro il fatto che il suolo è una risorsa limitata e scarsa. È fondamentale capire come si può proteggere questa matrice che letteralmente “sorregge” l’intera umanità e con lei tutti gli esseri viventi.

    

La risorsa suolo

Il suolo è una risorsa limitata e non rinnovabile quindi da salvaguardare in tutti i suoi aspetti per evitare di perderla totalmente prima del dovuto. Il suolo ha delle caratteristiche uniche e delle funzioni molto importanti per ogni singolo essere vivente; dunque, è necessario proteggerne la sua salute e limitare il suo utilizzo. O almeno sarebbe opportuno conoscere il terreno che c’è sotto i nostri piedi e imparare cosa possiamo e non possiamo fare con tale risorsa.

    

Come prima cosa è fondamentale capire che si tratta di una matrice che impiega tantissimo tempo per formarsi: si parla di 1000 anni per 3 cm di terra. Già i tempi necessari per la sua crescita dimostrano le fragilità della risorsa e fanno riflettere sulla velocità umana nel depauperarla. La continua costruzione di edifici causati dalla maggiore urbanizzazione del mondo, risulta come una minaccia per il suolo e per tutte le sue funzioni. Tra le più importanti, cattura il carbonio dall’atmosfera, previene il dissesto idrogeologico, fornisce nutrienti alle piante e conserva la biodiversità. Quelli appena citati sono servizi fondamentali e indispensabili per tutti e molto vantaggiosi per il settore agricolo, che in primis dovrebbe tutelare la matrice principale delle sue attività.

   

Tuttavia, il Rapporto presentato lo scorso 30 novembre 2023 da “Re Soil Foundation” descrive un andamento poco sostenibile delle nostre attività. Nel testo, infatti, si sottolinea come solo il 30% degli agricoltori fa analisi del suolo annualmente in Italia.  Pertanto, la gestione dei terreni e delle operazioni sono approssimate e riguardano principalmente la monocultura.

    

Il monitoraggio

Le funzioni e la salute del suolo hanno un’enorme rilevanza che non possono essere trascurate. Di solito per tutelare tali processi e le condizioni di un habitat o di un ecosistema è necessario svolgere dei monitoraggi di vario tipo. Con tali operazioni si possono misurare molteplici valori ma anche individuare possibili danni alla risorsa, in modo da trovare la migliore soluzione e proteggerla.

   

Le tecniche di monitoraggio sono tante e diverse a seconda della condizione da analizzare o l’approccio scelto e con il tempo sono sempre più avanzate. Grazie all’innovazione, infatti, i monitoraggi sono sempre più precisi e specifici e si svolgono con tecnologie sofisticate e attente l’ambiente che analizzano. Un esempio in questo senso è progetto dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova che ha creato dei robot ispirati alle piante. Si tratta di un prototipo di seme artificiale in grado di rilevare e comunicare alcuni inquinanti nel suolo, per poi decomporsi a fine vita. L’invenzione si chiama Acer i-Seed ed è stata creata in collaborazione con il Bioinspired Soft Robotics Laboratory e il Leibniz Institute for New Materials.

   

Acer i-Seed

Il progetto guidato dall’IIT di Genova è una novità spettacolare che consente di monitorare il suolo attraverso modalità innovative. L’idea è di Barbara Mazzolai, biologa marina, con dottorato in ingegneria degli ecosistemi, team leader all’IIT dal 2009. L’obiettivo del programma europeo è quello di creare robot incentrati su un concetto fondamentale: il ciclo della vita. Quindi si tratta di sistemi che usano l’energia dell’ambiente, sono completamente sicuri, traggono ispirazione dagli esseri viventi e sono riutilizzabili.

    

Infatti, Acer i-Seed è infatti un sistema ispirato ai semi rilasciati da una pianta, che cambiano forma e si muovono autonomamente nel suolo. Si tratta di un robot “soffice”, idealizzato seguendo uno studio istologico dei semi, creati artificialmente. Successivamente è stato stampato il modello in 3D del seme che vola attraverso nanoparticelle sensibili alla variazione di temperatura. Quest’ultime inoltre, emettono fluorescenza quando vengono stimolati da un laser con una determinata lunghezza d’onda, nel nostro caso l’infrarosso.

   

Di seguito la fluorescenza viene letta dai sistemi di telerilevamento a bordo di un drone e a seconda dell’intensità si determinano le concentrazioni dei parametri scelti. Tra questi

  • la temperatura;
  • l’umidità;
  • il mercurio alimentare;
  • l’anidride carbonica.

Tale studio è parte di un programma continuo e a basso costo; dunque, potrebbe essere usato anche in paesi che non possono permettersi delle tecnologie tradizionali. Sebbene sia in fase sperimentale, il gruppo di ricerca ha già de nuovi obiettivi, tra cui quello di integrare anche altri tipi di semi, oltre a quelli di acero. Così facendo si avrebbe una visione più completa del suolo di un ambiente con molteplici specie vegetali per poi individuare le aree da bonificare. La meta più importante è invece la riforestazione di zone remote, per mezzo dei robot.

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Redox Flow desalinizza l’acqua producendo energia

By : Aldo |Febbraio 08, 2024 |Acqua, Arte sostenibile, Home |Commenti disabilitati su Redox Flow desalinizza l’acqua producendo energia

La risorsa più preziosa al mondo è probabilmente l’acqua, di cui ha bisogno ogni singolo individuo esistente sulla Terra anche se in modalità diverse. Ma ancora più importante per noi umani è l’acqua potabile; una percentuale bassissima che non soddisfa il fabbisogno di tutti. Per questo le nuove ricerche propongono nuovi metodi per produrne maggiori quantità.

   

Cosa succede nel mondo

L’acqua come sappiamo bene è un bene di prima necessità dell’intero mondo e come tale è una risorsa preziosa. Col passare del tempo però, cresce la sua importanza e diminuisce la sua quantità nel pianeta e questo fenomeno sta allarmando tutti. Infatti, secondo l’OMS, entro il 2025 metà della popolazione mondiale vivrà in aree sottoposte a stress idrico, per colpa della siccità che aumenta giorno dopo giorno.

   

A tal proposito, sempre più gruppi di ricerca, stanno studiando modi alternativi per desalinizzare l’acqua e quindi impiegarla nel settore agricolo o renderla potabile. Così facendo si potrebbero affrontare le sfide determinate dai cambiamenti climatici, soddisfacendo la domanda crescente della Terra. Si parla quindi di desalinizzazione poiché il 97,5% dell’acqua sulla Terra è salata, ossia 1354,8 milioni di chilometri cubi, divisa tra oceani, mari e bacini. Mentre solo il 2,5% dell’acqua sul nostro pianeta è dolce, pari a 35,2 milioni di chilometri cubi di cui solo l’1% è potabile. Pertanto, sono sempre più le iniziative di ricerca in questo settore, la maggior parte delle quali si basa sulla desalinizzazione dell’acqua di mare.

 

La desalinizzazione

Questa tecnica è in uso da anni e impiegata regolarmente in 183 Paesi nel mondo. La metà degli impianti dissalatori globali si trova nel Medio Oriente, mentre in Europa spicca la spagna che nel 2021 ne contava circa 765. È un meccanismo così importante che in Arabia Saudita ricava da questi sistemi il 50% della propria acqua potabile.

    

Di preciso, oggi esistono due principali metodi di desalinizzazione dell’acqua:

  • la distillazione solare multistadio, un processo in cui l’acqua marina entra in scomparti in sequenza ed evapora per mezzo di vari stadi rilasciando sale;
  • l’osmosi inversa, meccanismo alimentato dal calore solare, per cui il sale si accumula rapidamente all’interno del dispositivo creando cristalli. Purtoppo questo processo determina un’otturazione del sistema, dunque è più costoso a livello economico, energetico e tecnologico rispetto ad altri.
  • lo scambio ionico, processo molto complesso, basato sulla rimozione degli ioni per mezzo di speciali resine.

Nonostante ciò, la ricerca avanza e di recente è stato pubblicato uno studio di un gruppo di ricerca dei New York che sembra aver trovato un’alternativa ancora più sostenibile. Si tratta di un meccanismo che, oltre a desalinizzare l’acqua marina, produce allo stesso tempo energia elettrica immagazzinabile in batterie.

 

Redox Flow

Redox Flow è il nome del processo ideato dai ricercatori della Tandon School of Engineering, New York University. Un meccanismo più economico degli altri caratterizzato da un’elevata efficienza di desalinizzazione. Il nome deriva dalle batterie a flusso Redox, una nuova tecnica elettrochimica che consente di trasformare l’acqua salata in acqua potabile e non solo. Infatti, permette di immagazzinare l’energia rinnovabile prodotta dal flusso dell’acqua, il tutto con prezzi accessibili, quindi anche per le regioni più in difficoltà.

   

Lo studio dimostra come il meccanismo messo a punto, possa diminuire il tasso di rimozione del sale di circa il 20%, così facendo riduce la domanda di energia. Sebbene sia stato applicato solo su bassa scala, risulta una valida alternativa ai metodi in precedenza elencati. Per impiegarlo su larga scala invece sarebbe necessario ottimizzare le membrane ioniche che filtrano l’acqua salata e la forza usata per la separazione. L’innovazione si trova proprio in questa fase. Perché è possibile usare di energia elettrica come forza spingente, ma anche sfruttare l’energia chimica sprigionata in modo spontaneo dal mescolamento di due soluzioni e convertita in energia elettrica. Questa poi può essere catturata e trasferita agli elettrodi della batteria ricaricabile.

    

Il professore che guida il gruppo, André Taylor, professore di ingegneria chimica e biomolecolare, è riuscito ad ottimizzare il processo totale. Di fatti, il sistema può desalinizzare fino a 700 litro/ora m2, cifre elevatissime rispetto ai 15 litro/ora dell’osmosi inversa. Lo stesso, nello studio pubblicato su Cell Reports Physical Science, suggerisce come un sistema del genere possa essere un’importante soluzione a due domande fondamentali, ossia quella dell’energia e dell’acqua potabile.

     

Se impiegata in aree remote, in regioni povere o in stati di forte siccità, un’innovazione del genere potrebbe diventare un vero e proprio game changer. Soprattutto perché non inficia la conservazione ambientale e supporta l’integrazione energie rinnovabili, come solare ed eolico. In particolare, l’utilizzo di queste fonti intermittenti fornirebbe un’energia immagazzinata nelle batterie (sopra citate) rilasciata su richiesta. Il sistema porterebbe si, un nuovo quantitativo d’acqua potabile, ma incentiverebbe la transizione ecologia riducendo la dipendenza dalle reti elettriche convenzionali.

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Crediti di plastica: Greenwashing o azione concreta?

By : Aldo |Febbraio 06, 2024 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti |Commenti disabilitati su Crediti di plastica: Greenwashing o azione concreta?

La quantità di plastica nel mondo cresce in maniera spropositata e rappresenta sempre più un problema globale a cui mettere un freno. Negli anni sono stati promossi progetti di ogni tipo, investimenti per la ricerca e soluzioni per le aziende. Tuttavia, sembra che la problematica continui ad aumentare e che certe azioni non abbiano l’impatto desiderato.

 

Nuove frontiere

Ad oggi il mondo è invaso dalla plastica, che continua ad aumentare in modo spropositato senza un accenno di rallentamento. Ogni anno 11 milioni di tonnellate di plastica finiscono negli oceani e tra i 75 e i 199 milioni di tonnellate hanno già raggiunto i loro ecosistemi. Questo fenomeno si ripercuote anche sulla terra ferma e sulla nostra salute. Pertanto tale tendenza preoccupa tutti e soprattutto gli studiosi che hanno messo a punto, negli anni, soluzioni e progetti per limitarne la dispersione nell’ambiente. Riciclo, riuso, nuovi polimeri, la biodegradabilità, tutto è volto a ridurre la produzione e il consumo di plastica, se non fosse che certe soluzioni sono di dubbia efficienza.

   

Infatti, durante i negoziati del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente a Nairobi (svolti dal 13 al 19 novembre) è stata introdotta una nuova opzione. Quest’ultima non convince tutti anzi, crea un forte divario tra i suoi supporter e gli scettici. Si parla dei crediti di plastica, simili a quelli di carbonio, sono stati introdotti come una nuova soluzione per ridurre l’inquinamento dei polimeri onnipresenti. Ci sono molti aspetti che fanno dubitare della loro efficienza nella diminuzione dell’inquinamento o almeno della loro validità in questo campo. Tuttavia, sono state già autorizzate le società addette alla valutazione, al monitoraggio e alla certificazione di tali crediti. Tra queste Plastic Bank, Plastic Credit Exchange e Verra già già finite negli scandali per crediti di carbonio “spazzatura”.

 

I crediti di plastica

Ma cosa sono effettivamente i crediti di plastica e come funzionerà questo nuovo mercato? I crediti di plastica vengono utilizzati dalle imprese per finanziare la rimozione della plastica e contribuire a impedirne il raggiungimento dell’ambiente. Addirittura, le aziende possono unire tale attività agli impegni che attuano per ridurre l’inquinamento nella filiera, così da raggiungere la “neutralità plastica”.

    

Di preciso, le aziende possono guadagnano crediti collaborando con enti impegnati nella raccolta di plastica (per proprio conto). Tali organizzazioni, sono generalmente formate da volontari o comunque da cittadini di aree costiere, principalmente dei paesi in via di sviluppo. Seguendo tale meccanismo sarebbe più semplice monitorare i progetti finanziati e l’effettivo cambiamento, al contrario dei crediti di carbonio. Infatti, secondo Clean Hub (società di consulenza per aziende), monitoraggio, controllo e recupero della plastica sono processi tangibili e tracciabili.

   

Pro, contro e greenwashing

Come detto in precedenza, questi movimenti non sono ritenuti validi da tutti, il panorama mondiale è diviso tra i pro e i contro. Chi li promuove, afferma siano molto più tracciabili dei crediti di carbonio e che possano contribuire realmente a ridurre il rilascio in ambiente di plastica. C’è chi invece crede si tratta dell’ennesima forma di greenwashing e dunque che non siano efficienti al contrario possono rallentare il percorso di diminuzione della plastica.

   

Le prime opinioni sono rafforzate dal fatto che questa soluzione finanziaria potrebbe trovarsi al cuore del prossimo Trattato globale sulla plastica delle Nazioni Unite. La considerazione di una tale iniziativa da parte di un ente così importante a livello globale fa pensare si tratti di una vera e propria soluzione. Nonostante ciò, si riscontrano dei movimenti poco chiari e delle dinamiche particolari che fanno dubitare della loro efficacia nel mondo.

 

Per prima cosa sono attività promosse maggiormente nei paesi a basso reddito, dove non esistono programmi di gestione dei rifiuti né tutele sul lavoro. In questo modo si evitano dei punti cardine della sostenibilità che riguarda anche l’aspetto sociale e umano, al quale si devono garantire diritti fondamentali. Così facendo, la pratica potrebbe trasformarsi in un’operazione di greenwashing, soprattutto perché non esistono ancora degli standard globali. Ovvero, non sono stati definiti regolamenti che disciplinino l’uso di questi crediti plastica o ne garantiscano l’affidabilità. In tal modo, le aziende non saranno impegnate concretamente nel ridurre la produzione di plastica, poiché la soluzione riguarda solo la parte finale della filiera. Pertanto, saranno in grado di continuare a produrla coprendosi con campagne pubblicitarie illusorie.

   

Per ora le indagini non presentano una grande positività dell’iniziativa. Di certo se fossero regolamentate e monitorate nei modi opportuni, queste attività potrebbero aiutare (in parte) a risolvere il problema.

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Farina di grillo: la prima azienda italiana autorizzata alla produzione e al commercio.

By : Aldo |Febbraio 04, 2024 |Arte sostenibile, Home |Commenti disabilitati su Farina di grillo: la prima azienda italiana autorizzata alla produzione e al commercio.

La fame nel mondo, le nuove diete, la sostenibilità hanno portato alla ricerca di nuove soluzioni regolare la crescita demografica del pianeta. Le prime innovazioni su questo fronte stanno arrivando ma non tutte sono accolte positivamente dalle popolazioni mondiali. Una delle più discusse è legata all’utilizzo di insetti nell’alimentazione.

Le proteine del futuro

Da anni si discute di come affrontare la crescita demografica e quindi di come sfamare 8 milioni di persone sulla terra. Soprattutto, si deve ragionare in funzione di uno stock limitato di risorse e quindi con la necessità di massimizzare la resa. Per questa ragione si parla ormai da anni, di un futuro in cui i popoli si alimentano con particolari prodotti, come per esempio gli insetti.

  

La scelta di introdurre gli insetti non è recente per alcune popolazioni del mondo ma di certo è una novità per le popolazioni “occidentali”. A proposito, la FAO afferma che si consumano già 1900 specie diverse di insetti, quindi i passi che stiamo muovendo sono effettivamente una novità solo per alcuni.  Nonostante ciò, molti non condividono o si chiedono ancora le ragioni per cui procedere con la consumazione dei nuovi alimenti e i loro derivati.

   

Gli insetti possono piacere o meno, ma è scientificamente provato che siano ricchi di proteine e nutrienti e cosa più importante: sono tantissimi sul pianeta. Inoltre, il loro allevamento non produce neanche l’1% di emissioni e dunque sono un’alternativa ideale alla dieta tradizionale. La loro introduzione nel settore alimentare contribuirebbe positivamente ad un ambiente più sostenibile e sano. Precisamente, potrebbero contrastare problemi quali:

  • l’aumento del costo delle proteine animali;
  • l’insicurezza alimentare;
  • le pressioni ambientali;
  • la crescita demografica;
  • l’aumento della domanda di proteine presso le classi medie.

In Europa

In Europa è entrato in vigore il primo regolamento 258/97, relativo ai “nuovi alimenti” il 15 maggio 1997. Con tale norma si definisce qualsiasi prodotto alimentare che non sia stato consumato ampiamente nell’UE. Ma solo di recente (1° giugno 2021), la Commissione Europea ha adottato il regolamento sui “nuovi alimenti”. Tale passo è stato possibile grazie a una scrupolosa valutazione scientifica (effettuata dall’EFSA) sulla sicurezza alimentare di questi cibi. Dopodiché è stata approvata la loro introduzione sul mercato UE.

     

È bene ricordare che, parlando di insetti, l’UE, ha approvato l’introduzione del tenebrione mugnaio giallo. L’insetto è stato valutato dall’EFSA ed è soggetto alle norme UE che disciplinano l’etichettatura degli allergeni. Ossia di un elenco di 14 ingredienti che devono essere chiaramente segnalati sull’etichetta, come uova, latte, pesce, crostacei ed ora anche gli insetti. In particolare, è stato riconosciuto che il consumo del tenebrione mugnaio giallo può provocare reazioni allergiche specialmente a chi è allergico o intollerante ai crostacei e agli acari della polvere.

  

Nei mesi successivi al regolamento sono arrivate anche richieste per autorizzare anche il consumo di altre varietà, come:

  • l’Alphitobius diaperinus larve (tenebrione mugnaio minore);
  • Gryllodes sigillatus (grillo domestico tropicale);
  • l’Acheta domesticus (grillo domestico);
  • Locusta migratoria;
  • Hermetia illucens (mosca soldato nero).

Ovviamente anche per queste sarà necessaria la valutazione di sicurezza da parte dell’EFSA per l’autorizzazione al commercio. Sebbene si tratti di un tema controverso per alcuni e di una svolta per altri, l’Italia ha sorpreso tutti in questo ambito. Infatti, ha autorizzato la prima azienda italiana a produrre e vendere alimenti a base di insetti.

  

Nutrinsect

Nutrinsect è (per ora) la prima ed unica azienda italiana autorizzata alla produzione, trasformazione e commercializzazione della farina di grillo per alimentazione umana. La società marchigiana con sede in provincia di Macerata dopo due anni di attesa potrà distribuire la farina liofilizzata di grilli, definita “polvere sgrassata di acheta domesticus”.  La storia del gruppo racconta come cambiano le necessità nel tempo e le idee innovative che sono alla base della svolta sostenibile. Nel 2011 Jose Cianni, fondatore e ceo dell’azienda, si interessa alla questione e decide di puntare su questa nuova frontiera ancora sconosciuta. La sua scelta è coraggiosa anche perché deriva da una famiglia di allevatori tradizionali, quindi ha continuato sulla stessa linea, cambiando materia prima.

    

Il gruppo per avere l’approvazione ha atteso due anni, in cui ha avviato due diversi iter burocratici, uno dei quali prevedeva la collaborazione con aziende già autorizzate. Non a caso per la prima fase, la distribuzione della farina “Nutrinsect” sarà curata dalla Reire di Reggio Emilia. I destinatari sono le aziende alimentari e a tutto il settore horeca: mentre serve altro tempo per i supermercati.

   

Di preciso, l’allevamento della società non è considerato intensivo per via delle condizioni in cui vivono i grilli che contano un tasso di mortalità bassissimo. Inoltre, non sono usati farmaci o antibiotici, dunque il profilo nutrizionale del prodotto è di altissima qualità. Ciò è fondamentale per due principali aspetti:

  • la salute umana, poiché la farina in esame è ricca di proteine, ferro, calcio, vitamina B12 e fibre;
  • la salute ambientale, visto che per produrre 1kg di carne servono 15mila litri di acqua e solo 5 per 1kg di farina di grilli.

Ad oggi l’azienda produce 2 tonnellate di polvere di grillo liofilizzata al mese, grazie all’allevamento di 10 milioni di grilli. L’obiettivo è quello di produrne 400 tonnellate, ma c’è tempo per Nutrinsect di ampliare il proprio mercato e affinare le proprie tecnologie.

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